«Io te l’avevo detto: “Baby, ho dei problemi seri”

E ora hai paura perché tutti quei brutti pensieri sono diventati veri»

Le ultime strofe di 3 messaggi in segreteria, la canzone scritta dal punto di vista di un femminicida di Emis Killa, sono state citate (spesso senza contesto) in svariati articoli. Eppure a fare paura non dovrebbero essere solo quelle tre frasi finali, ma tutto il testo, dove il cantante ricostruisce con fedeltà tutti i ragionamenti che precedono l’atto – estremo – finale.

I primi titoli che lo hanno ripescato a 7 anni dall’uscita hanno parlato di “inno al femminicidio”. Un brano fra tanti che racconterebbe la realtà di una generazione. Ma è davvero così?

Rap e linguaggio: qual è l’influenza sui giovani?

Lo abbiamo chiesto direttamente a chi ha creato il paradigma di scrittura per gli artisti di oggi: Armando Sciotto, in arte Chicoria, storico membro del gruppo di writers In The Panchine (nato nel 2004). «Quello di Emis Killa, come ha già spiegato lui stesso, è un esercizio di storytelling. Non è nemmeno il primo, i Gemelli Diversi raccontavano una storia altrettanto scioccante in “Mary”. Non vedo volontà di influenzare nessuno, la mia quotidianità non dipende dalla musica che ascolto e nemmeno quella dei ragazzi» risponde con sicurezza il rapper. «Basta una ricerca su Google per vedere che la maggior parte dei femminicidi non vengono compiuti dalla fascia giovanile, salvo alcuni casi, ma da adulti tra le mura di casa, che ovviamente non sono esposti alle influenze di rap e trap come i ragazzini».

Nessuno studio prova che ci sia una diretta influenza tra i comportamenti dei ragazzi e la musica che ascoltano, come ci conferma Enkelejda Shkreli, docente di sociolinguistica presso l’Università degli studi di Bologna. Rimane però difficile da comprendere la ragione per cui questi artisti sentono il bisogno di esprimersi utilizzando un linguaggio così forte.

Perché il linguaggio iperbolico è ancora necessario

«Quello che sto per dire l’ha spiegato bene Salmo, uno dei rapper più importanti del momento» incalza Sciotto. «Creare una canzone oggi significa doversi assicurare che l’ascoltatore ascolti il tuo brano dall’inizio alla fine, altrimenti non si viene pagati. È naturale che si dicano cose sempre più esagerate al fine di mantenere l’attenzione su di sé».

Quando ha cominciato lui, come racconta bene anche Fabri Fibra nell’episodio 15 (terza stagione) del podcast “Passa dal BSMT”, il linguaggio doveva scioccare perché l’industria musicale si rifiutava di scritturare rapper e le radio li censuravano. Oggi la situazione è cambiata, il rap per la nuova generazione è un ascensore sociale, una terza via tra lavoro e studio. Ma questo linguaggio è ancora efficace, secondo Sciotto: «Oggi l’industria musicale premia chi la spara più grossa, quelli su cui può puntare in ottica di longevità. Ovviamente se un artista sa che esprimersi in modo esagerato lo porta a guadagnare di più, non può non farlo».

Rap, linguaggio e folklore

Il mercato e le sue leggi, come ben sappiamo, non sono però indipendenti dalla società. Quanta voce in capitolo hanno gli ascoltatori? Sono i ragazzi a richiedere questo linguaggio iperbolico, estremo? Qui Sciotto non esita a rispondere a tono: «Non era forse cruenta la Divina Commedia, soprattutto i racconti dell’Inferno? E andando più indietro ancora, il ratto delle Sabine?». Può lasciare perplessi questo volo pindarico: non c’è forse un’enorme differenza tra il racconto mitologico e quella che sembra essere una trasposizione letterale della realtà?

A questi dubbi risponde Shkreli: il rap è una sorta di folklore moderno, gli autori oggi sono come i musicisti che cantavano l’epos esagerando sul sangue e sulle gesta eroiche dei protagonisti per attirare l’attenzione degli ascoltatori. «Fino anche a 30 anni fa, passato e presente erano ben distinti» spiega la professoressa. «Oggi comunichiamo senza più scandire tempo e luogo. Abbiamo a portata di mano presente e futuro, luoghi vicini e lontani, persino il tempo futuro nel linguaggio parlato non si usa più. Per far sì che fissiamo cose nella nostra memoria, abbiamo bisogno di un linguaggio estremi.»

La letteratura che manca

È dunque questo il segreto del successo della musica rap e trap tra i ragazzi? La capacità di questi artisti di catalizzare le attenzioni e manipolare il mercato saturo? Sì e no. Come spiega bene sempre Fibra, il rap è sempre stato un genere musicale imprescindibile dal contesto sociale. Ascoltare musica rap significa cercare in essa le risposte, motivarsi, dare un senso alla propria vita per coloro che si sentono emarginati e inetti.

Seppur figli di un contesto completamente diverso alle prime generazioni veramente fruitrici del rap, i giovani sentono ancora il bisogno di fare comunità, sentirsi capiti e soprattutto avere delle guide. «Io vedo questi testi come una vera e propria produzione letteraria, la musica è solo un veicolo per facilitare l’arrivo della parola» afferma la professoressa. «Non c’è al momento una letteratura, un’arte che possa far sentir rappresentati i giovani. Dagli 11 ai 18 anni, un adolescente è lasciato completamente a sé dalla cultura: perché non pensiamo a questa produzione come a quella di una massa adolescenziale che, non trovando una letteratura che li rappresenti per forma e sostanza, se la inventa?».

Rap e linguaggio: essere adolescenti oggi

Shkreli cita i latini e il concetto di horror vacui: la Natura che rigetta il vuoto, l’assenza. Laddove manca qualcosa, siamo portati a crearlo: «Dai 12 anni di età i ragazzi entrano in una fase “anarchica” in cui rigettano ogni autorità. Linguisticamente, rifiutano la norma e creano una loro antilingua che gli adulti non possono usare», basti pensare a tutte quelle parole nate come slang giovanili e poi diventate “da boomer”, rifiutate e rese ecatombi dagli stessi che le avevano semantizzate.

«Culturalmente, i ragazzi rifiutano i canoni. Vogliono essere unici, ma allo stesso tempo vogliono che la loro unicità venga apprezzata da un gruppo, sentono il bisogno della collettività. Questo si affievolisce verso i 18 anni, quando inizia la fase dell’autoformazione», e in cui i ragazzi evolvono anche come ascoltatori.

Rincara la dose Chicoria: «A me non sembra che i ragazzi possano vedere in cantanti (che spesso hanno due o tre anni in più di loro) una guida. Quali esperienze possono mai avere? Però se così fosse, chiediamoci come mai sentono il bisogno di imparare ad interagire con l’altro sesso tramite la musica. Perché questa guida non viene offerta dalla scuola tramite ore di educazione sessuale o dalla famiglia?».

L’impegno sociale di Chicoria

Lui si finge scettico, ma in realtà è ben consapevole del potere che ha come artista, sa cosa vuol dire crescere senza una guida e cercarla in altre persone, anche sbagliando. Ecco perché cerca di cambiare le cose in prima persona e si impegna per fare divulgazione. Se nota una ragazza sola ad un concerto che rischia di essere importunata, si organizza per farla arrivare a casa sana e salva. Va nelle scuole regolarmente a parlare con i ragazzi della sua vita, della sua esperienza nel carcere di Regina Coeli dove ha passato 15 mesi.

Soprattutto, ha capito che per mostrare ai ragazzi come rapportarsi con l’altro sesso serve dare voce alle donne. Insieme alla casa editrice Honiro Label sta lavorando ad un podcast che uscirà a breve, Mestieri Impossibili, dove ha dedicato una puntata a DonneXStrada: «È un’associazione che lavora molto sulla sensibilizzazione e io ci tengo che i ragazzi capiscano che quando escono devono stare svegli, devono prendere posizione se vedono qualcosa di sbagliato e difendere chi si trova in pericolo». È sempre insieme all’associazione che vorrebbe organizzare un progetto di educazione sessuale nelle scuole, perché i ragazzi sentano insieme un uomo e una donna e comprendano al meglio le comuni responsabilità nei confronti della violenza.

E non solo. «Serve qualcuno che parli ai ragazzi di come ci si relaziona con l’altro sesso. Se qualcuno avesse detto ad un ragazzino come Turetta che di relazioni nella vita ne avrebbe avute molte altre, anche più belle, forse quest’ultima tragedia non sarebbe successa» afferma.

I giovani cercano di imparare, cercano una cultura, vogliono di avere voce in capitolo. Se non gli viene offerta questa possibilità a scuola o in famiglia, l’alternativa qual è? «Di certo non farsi guidare da ragazzini di 20 anni, che hanno vissuto tante esperienze quante loro. Mettono in musica solo quello che conoscono e il loro intento è soprattutto fare i soldi. Rimangono i consultori, ma ci si va quando ormai è troppo tardi».