«Siamo cresciute con in casa i volumi dell’Enciclopedia della donna, il manuale della perfetta padrona di casa. Ci piace pensare che un’enciclopedia di Morgane possa riparare a molti dei danni derivati dall’aver costretto le donne a immaginarsi per anni dentro a un unico percorso», ha detto Michela Murgia. È questo il senso di Morgana, il podcast che dal 2018 lei e Chiara Tagliaferri curano insieme e a cui danno la loro voce.

Usare il presente è d’obbligo, perché nonostante Michela si trovi adesso in un regno diverso dal nostro, ci ha insegnato l’importanza di moltiplicare le voci. È questo che ha fatto Chiara Tagliaferri, scrittrice e coautrice di Morgana, il corpo della madre (Mondadori), in libreria dal 1° ottobre. Si tratta del terzo volume della raccolta e sarà anche l’ultimo. «L’ho firmato insieme a Michela quando era ancora in questo regno e l’ho terminato con lei in un altro regno. Sono sempre stata una ragazzina piuttosto gotica, convinta che se ti impegni è abbastanza facile varcare le soglie dei regni, quindi è stato avventuroso completarlo in due luoghi differenti, doloroso e bello. Però non voglio firmare altri libri con il nome di Michela perché va bene così», mi ha detto Chiara. Invece, Morgana come podcast continuerà, perché raccontare le storie di uomini e donne controcorrente è estremamente necessario e loro sono e saranno sempre Michela Murgia e Chiara Tagliaferri.

Morgana, il corpo della madre

La genesi di Morgana, il corpo della madre

Come è nato questo terzo volume di Morgana?

 «È nato da una frase che Michela mi ha detto: «Nessun ti amo vale quanto non ci penso io». Più di un anno fa, quando Michela stava progettando il tempo che avrebbe avuto a disposizione in questo regno, aveva deciso di scrivere dei libri che poi sono usciti postumi, ovvero Dare la vita e Ricordatemi come vi pare. C’era poi un grande volume che avrebbe dovuto raccogliere i racconti delle ultime due stagioni di Morgana.

L’abbiamo iniziato insieme e lei mi ha chiesto di terminarlo. Io ho accettato di farlo perché Michela mi ha insegnato a moltiplicare le voci, a creare una rete di protezione. E questo le donne lo sanno fare molto bene. È come quando nel cielo vediamo una migrazione di uccelli: sembra un unico grande uccello e di fronte a uno stormo così compatto i nemici si spaventano. Lei ha sempre agito così con le sue sorelle e i suoi figli d’anima, e così facciamo noi».

Essere una Morgana

Quindi nasce prima il podcast e poi il libro?

«Sì, esatto. Il racconto orale ha delle regole, mentre quello scritto ne ha altre. Abbiamo rimesso mano alle nostre Morgane, che tra l’altro sono molto cambiate rispetto a quando abbiamo iniziato nel 2018. Lo scopo è parlare attraverso le vite che esploriamo. Quelle delle altre e degli altri: abbiamo raccontato tante storie di donne, di persone queer e anche di uomini. Perché Morgana non è un genere ma uno stato d’animo.

Raccontare queste vite ci ha permesso di rivendicare sempre la diversità e la libertà delle proprie scelte, uscendo dagli stereotipi e dalla biologia, talvolta fuori e contro il canone. Abbiamo cercato di esprimere anche il lato più oscuro della parola madre. Ci hanno sempre interessato gli abissi, e raccontare la maternità non come un percorso a senso unico, non come un destino quasi obbligato, ma come una possibilità. È molto importante che i giovani abbiano coscienza di questo e difendano i loro diritti».

Il corpo è un bersaglio, il più facile

Questo volume si intitola Morgana, il corpo della madre. Si tratta di un sottotitolo molto puntuale che sembra andare oltre al semplice ruolo di madre. Perchè proprio questo?

«Questo sottotitolo apre scenari un po’ più ampi. I corpi delle donne sono quelli più osservati e più giudicati. E da sempre se tu vuoi zittire una donna, non critichi le sue parole, ma miri al corpo. Lo dimostra il fatto che Michela Murgia sia stata vituperata per anni per ciò che diceva, ma non era mai contestata ad armi pari: era il suo aspetto ad essere attaccato con violenza. Poi se parliamo di donne incinta, sembra che il loro corpo sia demanio pubblico, su cui tutti possono decidere. Soprattutto in questo momento storico, in cui la maternità è sotto i riflettori…».

L’alfa e l’omega

Il libro contiene dodici morgane: la prima è Maria di Nazareth, mentre l’ultima è Michela Murgia. Appena ho visto l’indice ho pensato ironicamente all’alfa e all’omega. È una scelta casuale?

«Niente è lasciato al caso. Ho pensato che non ci fosse chiusura migliore di raccontare la più morgana di tutte. Mi piaceva molto che Michela arrivasse dopo le Madri di Plaza de Mayo. Alla fine di questo racconto parlo di una fotografia la che ritrae insieme a una di loro, Taty Almeida. Si erano incontrate un po’ di anni fa e avevano parlato di maternità. Pensiamo all’incredibilità di quello che hanno fatto le madri dei desaparecidos, dopo il colpo di Stato in Argentina nel 1976: non hanno mai smesso di marciare e a un certo punto non hanno più lottato solo per il figlio che hanno messo al mondo, ma per tutti i 30.000 scomparsi.

Così hanno socializzato l’esperienza della maternità: hanno capito che l’unico modo per farcela era diventare madri di tutte le vittime. A un certo punto hanno affermato di essere state partorite dai loro figli: perché erano nate grazie alla loro scomparsa. Molte di loro hanno più di cento anni e dicono che a tenerle vive sono state la piazza e la sorellanza. Per cui mi sembrava naturale che la socializzazione della maternità e di questi figli dell’anima portasse all’ultima madre che ho raccontato. Che poi è un racconto corale: sono le voci di donne e uomini che camminano nel mondo anche attraverso le parole di Michela».

Tutto comincia con Maria di Nazareth

Perché è così importante fare i conti con la figura di Maria di Nazareth?

«Perché è la madre per antonomasia. La sua storia è stata usata, riscritta, torta e ritorta fino a trasformarla in uno stampo buono per tenere tutte le donne – specialmente le madri – sottomesse. Maria, la madre del figlio di Dio, secondo i Vangeli sembra aver passato tutta la sua esistenza a vedersi rinnegare proprio quel ruolo lì. Per anni ho pregato e ascoltato messe immaginandomi questa ragazza che custodiva tutto nel suo cuore silenziosamente. Perché è stata trasformata in un’icona della donna sociale: muta, che capisce ma non interferisce.

Ma quando Maria dice che porterà nel suo grembo il figlio di Dio, il suo sì è un atto suicidario: nella migliore delle ipotesi può essere lapidata dal padre o dal futuro sposo, perché come glielo spieghi quello che sta succedendo? Il suo sì è diventato un modello di obbedienza e docilità affinché le donne dicessero altri sì ad abusi e violenze, invece le cose erano molto diverse. Inoltre, Maria fa un altro scarto che molte madri non sono riuscite a fare dopo di lei: non ha confuso la maternità con il possesso. Gesù definisce ridefinisce i legami biologici in base alla volontà e non al sangue, che è una cosa molto moderna. È quello in cui credeva anche Michela. Maria capisce che l’unico modo per non perdere quel figlio è diventarne discepola e questo significa avere fede».

Morgana, via dalle etichette

Delle dodici Morgane una è un uomo: David Bowie. Perché proprio lui?

«Bowie se n’è fregato. È comparso, è entrato nella televisione di milioni di inglesi, come una sorta di divinità sessuale libera di amare chi voleva. Era come un alieno che arrivava da un altro pianeta e ha scagliato tutti questi inglesi, un po’ stupefatti, in un futuro che non erano nemmeno certi di voler abitare. Ha travalicato ogni identità e ogni genere: è stato etero, gay, bisessuale, transgender, tutto allo stesso tempo. Non c’erano delle etichette in grado di contenere un personaggio così, li ha attraversati tutti senza paura e ha fatto proprio della sua inafferrabilità un detonatore. Questo ha lenito all’istante la solitudine di chiunque come lui si sentisse emarginato. Con quel corpo lì che sfuggiva ogni classificazione ha dato forma alla diversità, narrandola proprio come una libertà di espressione».

Tra queste Morgane ce n’è poi una che il suo corpo l’ha nascosto: Elena Ferrante.

«Elena Ferrante ha deciso fin da subito di non mostrarsi in pubblico, un gesto imperdonabile per i suoi detrattori. Perché come ti permetti tu di sparire e vendere milioni di copie dei tuoi libri, tradotti anche in quaranta lingue diverse? Quando una donna, per di più senza corpo, ottiene un successo di questo tipo gli uomini che cosa possono dire? Ma Ferrante ha solo deciso e comunicato il desiderio di non essere usata esponendo se stessa, ma non ha mai espresso timidezza comunicativa. Ha sempre usato le parole come una lama affilatissima e continua a farlo per raccontare il mondo, per spiegarsi e per cambiare le cose».

Scegliere una Morgana

Come avveniva la scelta delle Morgane?

«Molti nomi bastava farli e scoppiavamo a ridere perché sapevamo che era ovviamente una Morgana. Su altre c’erano delle discussioni all’ultimo sangue. Allora, non abbiamo mai voluto che i nostri personaggi fossero ispirazionali o edificanti. Volevamo fossero educativi al coraggio delle scelte che è molto diverso: le nostre Morgane sono uomini e donne piuttosto scomodi socialmente. A volte Michela mi diceva che le mie scelte erano davvero fonte di disperazione, considerato che ci avrebbero ascoltato anche bambine di otto anni. Allora io le rispondevo che anche le sue figure non erano proprio care bambine, infatti si trasformavano tutte in assassine da grandi. Quindi, poi siamo scese a patti: lei mi ha concesso di raccontare Sylvia Plath e io in cambio le ho dato Ulrike Meinhof».

Un giusto compromesso.

«Sono entrambe due donne molto interessanti. Da una parte c’è Ulrike Meinhof e la sua metamorfosi da studentessa cattolica, pacifista e attivista di sinistra a alfiere del terrorismo tedesco. Una donna che ha rinunciato al suo ruolo di madre per quello di guida di una banda terroristica. Le sue bambine finiranno in una baraccopoli in Sicilia e Ulrike combatterà l’ingiustizia con la violenza.

Dall’altra c’è Sylvia Plath che al di là della sua tragica fine, ha avuto coraggio e lucidità nella sua scrittura. Ha indagato il lato più oscuro della maternità. Si è detta che avrebbe trovato rifugio nella vita domestica e avrebbe soffocato la testa nella terrina con l’impasto per i biscotti. Tutte noi che abbiamo una famiglia o qualcuno di cui prenderci cura, sappiamo che cosa vuol dire. Plath è riuscita a dare voci a quei pensieri e sentimenti che possono portarti a odiare tuo marito, i tuoi figli e perfino te stessa, perché non ce la fai più a essere figlia, moglie e madre».