«Sono felice per te»: ecco una frase che diciamo spesso di fronte alla buona sorte di qualcuno di caro. Può essere una gravidanza, una promozione, un amore appena sbocciato ma già gonfio di promesse, e noi subito: «Sono felice per te!». Poi ci lanciamo in un abbraccio, magari un brindisi, mentre, da qualche parte nello stomaco, può capitare di sentire qualcosa di simile a un senso di colpa, una piccola tristezza. Perché sì, siamo davvero felici per loro, eppure…
La felicità degli altri – come recita il titolo della commedia francese con Vincent Cassel e Bérénice Bejo ora al cinema – è un affare complicato. L’ha detto bene Oscar Wilde quando, con la consueta arguzia, scriveva: «Chiunque può simpatizzare col dolore di un amico, ma solo un animo nobile riesce a simpatizzare con il suo successo». Proprio così: è difficile da confessare ma, una volta o l’altra, a tutti è capitato di festeggiare il trionfo di un amico e sentire che dietro al nostro grande sorriso stavamo nascondendo un piccolo dispiacere. Ora che faceva un balzo avanti, quel caro amico sembrava d’un tratto meno caro. Com’è possibile? Siamo davvero così miserabili da non riuscire a gioire della felicità altrui? Per quanto sia sgradevole ammetterlo, a volte è così. E non si tratta di invidia, di gelosia o di rivalità. Queste emozioni, che pure vivono in noi, non hanno il ruolo predominante che spesso riconosciamo loro. No, a guidare il nostro risentimento è qualcosa di meno feroce e più doloroso: una sensazione di smarrimento, di sconfitta personale. Il successo di una persona cara, se non è accompagnato da un uguale successo che ci riguarda, certifica non tanto il talento di chi ce l’ha fatta, quanto l’incapacità di farcela noi. Ma come, ci chiediamo, lui sì e io no? Un nemico non provoca lo stesso effetto, è troppo diverso da noi, lo vediamo spietato, raccomandato, prepotente, lecchino e mille altri alibi per cui siamo disposti ad accettare che la fortuna abbia scelto di baciare lui invece che noi. Ma un amico è fatto della nostra stessa pasta, e nel momento che raggiunge la vetta ricorda a noi che siamo rimasti a valle che il successo era lì, a portata di mano, ma non siamo stati abbastanza in gamba da acciuffarlo. E allora i casi sono due: o ci convinciamo di avere sbagliato sul conto del nostro amico («Alla fine era come tutti gli altri, spietato, raccomandato, ecc.») oppure, senza perdere la stima che proviamo per lui, preferiamo liberarci di quello specchio illuminato sulla nostra inadeguatezza. In ogni caso il risultato è lo stesso: ci allontaniamo.
Sono dinamiche delicate, che in un rapporto di amicizia spesso sono taciute e vissute con una punta di imbarazzo, ma quando a essere messo in discussione è l’equilibrio di una coppia finiscono per esplodere. L’amore pone gli amanti in una posizione difficile, a metà tra due estremi: da un lato la genuina soddisfazione per il successo e la felicità del partner, dall’altro una lunga fila di timori che sabotano quella soddisfazione e trovano espressione in una sola, grande, paura: che succederà ora? Si ripete spesso che il successo cambia le persone, e forse è così. Ma cambia anche, e soprattutto, le persone che ne sono escluse, quelle che stanno intorno al vincitore. All’improvviso temono la novità (“Ma non stavamo bene? Che bisogno c’era di cambiare?”), si scoprono permalose (“Ormai sei sempre altrove con la testa, a me non ci pensi più!”), colgono dappertutto motivi di vergogna (“Cos’è? Non mi consideri alla tua altezza?”), e per ogni frizione, litigio o incomprensione, la colpa è sempre loro, di quelle persone care che, senza chiedere la nostra autorizzazione, si sono azzardate ad avere successo e sentirsi finalmente felici e realizzate, accrescendo così la nostra frustrazione. Parliamoci chiaro, tra maschio e femmina, è il primo il principe di questa inutile e dannosa autocommiserazione che rende incapaci di vivere con gioia il successo della compagna. Una tradizione millenaria ha imposto che fosse l’uomo a portare il pane a casa, a elevare il buon nome della famiglia, a inchinarsi di fronte all’applauso sociale. La donna, tranne saltuarie ed esemplari eccezioni, ha sempre dovuto accontentarsi del ruolo di first lady, di musa, di sostegno, la prima a essere nominata nell’elenco dei ringraziamenti ma sempre fuori dalla luce dell’occhio di bue puntato sul maschio di successo. Oggi, tuttavia, che gli equilibri a poco a poco stanno cambiando, oggi che la coppia, sempre più spesso, corre insieme, che cosa succede quando è la donna a tagliare il traguardo mentre l’uomo resta indietro, appoggiato a un palo, a fare i conti con il fiato corto? Succede quello che il film mette in scena: incredulità, che diventa apprensione, che diventa sospetto, che diventa rancore. «Sono felice per te» diciamo, ma nelle nostre parole si sente: «Perché l’hai fatto? Come hai osato? Che ne sarà di noi adesso?».
L’amore assume i tratti di un gioco da tavola, divertente fintanto che a condurre il gioco siamo noi; viceversa, è tutto noia o inganno. Questi sono i terribili risultati che si ottengono quando il peso della propria inadeguatezza si scontra contro i precetti di una società che fa del successo un comandamento e un valore: amici che si allontanano, amanti che si separano, e tante piccole e grandi felicità che vengono macchiate dalla difficoltà di essere vissute pienamente insieme alle persone amate. Al contrario dovremmo comprendere che la felicità è una forma di bellezza: si deve imparare a riconoscerla e apprezzarla anche quando non ci appartiene, a maggior ragione se brilla negli occhi della persona che abbiamo a fianco. Come recita quel vecchio adagio? I veri amici si vedono nel momento del bisogno. Corretto, ma ancora più corretto sembra il contrario: i veri amici – e i veri amori, viene da aggiungere – si vedono nel momento del trionfo. Sono quelli che restano vicini, che alzano il calice e lo fanno tintinnare con emozione sincera, quelli che, nella felicità della persona amata, riescono a vederne riflessa anche un’altra, la propria.