Cosa faresti se tuo figlio fosse accusato di omicidio? Probabilmente non ci crederesti. Come non ci ha creduto Eddie Miller, il papà protagonista della serie Netflix Adolescence. In 4 episodi racconta di una famiglia il cui mondo viene sconvolto quando il figlio tredicenne Jamie viene arrestato per aver ucciso a coltellate Katie, una compagna di classe. Non ci sono dubbi sulla sua colpevolezza, ma nella testa di tutti resta un solo punto di domanda: perché?

Adolescence: una serie tv sugli adulti

Nessun adulto – genitori, insegnanti, ispettori – riesce a capire perché Jamie, a 13 anni, una sera, abbia ammazzato Katie. Finché un ragazzo non dà loro la giusta chiave di lettura per vedere ciò che fino a quel momento non erano stati in grado di cogliere. Ecco perché, a dispetto di quanto possa sembrare, Adolescence non è una serie tv sull’adolescenza. È una serie tv sugli adulti che sono accanto agli adolescenti, impotenti e disorientati, incapaci di fare comunità. Sono loro le coscienze che Stephen Graham ha voluto scuotere con un prodotto tecnicamente impeccabile: è dentro le loro teste che la storia di Jamie deve generare interrogativi.

Come stanno gli adulti?

«Penso che il titolo Adolescence porti un po’ fuori strada. Trovo infatti che la serie non sia puramente incentrata sull’adolescenza, ma sia più una riflessione sull’angoscia, sul dolore e sull’impotenza. Sul senso di responsabilità individuale, famigliare e sociale» mi dice Marco Bernardi, psicologo e psicoterapeuta specializzato in età evolutiva, che opera all’interno del nuovo Centro ReTe di Fondazione Carolina, dedicato al Recupero Terapeutico dai disagi giovanili (apre proprio questo aprile). «La serie tv non è un documentario, è una forma d’arte. E come ogni forma d’arte deve accendere emozioni e scatenare domande. Adolescence lo fa benissimo». La serie tv è l’eco dei fatti di cronaca che ogni giorno ci sbattono davanti agli occhi una domanda che ci attanaglia: cosa sta succedendo ai ragazzi? Aggressivi. Depressi. Muti. Ansiosi. Omicidi o suicidi. Ma soprattutto, cosa sta succedendo agli adulti?

Gli adulti sempre “troppo”

Troppo assenti o troppo presenti, sconosciuti o finti coetanei. Impigliati davanti allo specchio, non sentono di essere tirati per la manica. Annaspanti nella fatica di avvicinarsi al proprio dolore, prima che a quello dei loro figli, alunni, conoscenti. «Adolescence è più di una fotografia, è una fotografia in 3D. Trasporta sullo schermo ciò che noi vediamo tutti i giorni nella realtà: ragazzi che hanno difficoltà a rapportarsi con i genitori, che si sentono messi in discussione quando entrano in adolescenza, che si sentono soli e che più di tutto desiderano essere visti e accettati» spiega Ivano Zoppi, Segretario generale di Fondazione Carolina, l’Ente che si occupa di ricerca, prevenzione, cura del cyberbullismo e altri disagi nella Rete. «Ma d’altra parte mostra bene anche la mancanza di un accompagnamento adulto, preparato e presente durante la delicata fase dell’adolescenza».

Erin Doherty nei panni di Briony Ariston, la psicologa clinica assegnata al caso di Jamie, in “Adolescence”. Foto: Netflix

La centralità del mondo online in Adolescence

Il mondo virtuale gioca un ruolo cruciale in Adolescence: dalla pornografia online al revenge porn, dal cyberbullismo alla cultura incel. Quando la psicologa chieda a Jamie perché abbia un profilo Instagram, lui le risponde «Cosa? Devi averne uno. Per guardare quello che fanno gli altri». Questo apre due riflessioni. La prima riguarda il modo in cui le emozioni e le esperienze vissute dai ragazzi online si legano a quello che poi pensano, dicono e fanno nella realtà. La violenza del protagonista è frutto di una rabbia e di una frustrazione che hanno avuto la loro origine nell’emoji di una pillola rossa lasciata in un commento sui social. La seconda riflessione, invece, riguarda gli adulti. Spesso esclusi dai vissuti emotivi dei ragazzi perché non hanno gli strumenti per seguirli oltre la soglia del mondo online. «Cyberbullismo, cultura incel, hate speech, challenge mortali: c’è tutta una serie di fenomeni che stiamo imparando a conoscere, ma non tanto a gestire. Arrivano al nostro mondo di adulti attraverso i casi di cronaca e ci chiedono di rendere sì i nostri figli responsabili e coscienti di ciò che fanno in Rete, ma di fare altrettanto anche con noi stessi» dice Ivano Zoppi.

Sono 274 i casi di violenza online gestiti nell’ultimo anno e mezzo dalla Fondazione Dedicata a Carolina Picchio, prima vittima in Europa di Cyberbullismo

Emoji fraintese: adulti e ragazzi non parlano la stessa lingua

Non a caso, la vera svolta in Adolescence coincide con il momento in cui Adam, il figlio dell’ispettore, toglie il velo sulla cultura degli incel, aprendo così di fatto al padre la porta di ingresso nel mondo dei ragazzi. Dove tutto gli sembra sottosopra. «Papà, tutto ha un significato», si sente dire il poliziotto. E le emoji usate da Katie nascondevano un significato diverso da quello immediato, comprensibile solo per chi aveva gli strumenti e i riferimenti per coglierlo. I social sono densi di codici e linguaggi il cui vero significato alloggia al secondo piano del discorso, quasi mai al primo. Come fanno gli adulti a capire quell’universo senza una legenda o un glossario? Proprio come ha fatto l’ispettore Bascombe, gli adulti restano sulla superficie delle azioni dei loro figli, senza accedere alla profondità.

La vita online non va demonizzata, ma conosciuta

«Ci stiamo accorgendo di aver creato per loro un mondo in cui li abbiamo invitati a entrare, perché “ha un sacco di possibilità”, e da cui ora gli chiediamo di uscire, perché “è pericoloso”. Manca la via di mezzo, cioè la capacità di accompagnare i ragazzi a vivere il digitale e soprattutto di far loro comprendere che quello che accade in Rete ha sempre e comunque delle conseguenze nella vita reale. Un percepito, questo, che vedo spesso mancare: siamo tanto collegati ma poco connessi a noi stessi e a ciò che facciamo» dice Ivano Zoppi. Marco Bernardi aggiunge: «Da terapeuta mi sono chiesto: quanto spazio diamo alla vita virtuale nel processo di cura della persona, adolescente o adulta che sia? Per valutarla, raccogliamo informazioni sul suo modo di stare online? Le domandiamo cosa fa su Instagram, cosa fa su WhatsApp, come vive le relazioni digitali? Magari lo chiediamo ai ragazzi, ma molto raramente agli adulti. È importante – continua lo psicoterapeuta – non demonizzare l’online, ma tenere tutto insieme. Il mondo digitale ha questa potenza enorme sulla vita delle persone perché è la vita delle persone. Tendiamo a dicotomizzare un po’ troppo: la vita qui e la vita di là. Eppure, come si vede perfettamente anche nella serie, c’è una vita sola».

Owen Cooper nei panni di Jamie Miller in “Adolescence”. Foto: Netflix

Gli adulti in Adolescence sono disorientati

Adolescence è un pugno sferrato sulla faccia degli adulti, che a tratti nella serie fanno quasi tenerezza talmente sono incapaci di afferrare il senso di ciò che i loro ragazzi dicono e fanno. L’effetto che si genera non è tanto diverso dal turbamento che innesca la scena di Jamie perquisito e lasciato nudo di fronte al padre, un magrolino tredicenne trattato dagli agenti di polizia come il più pericoloso serial killer della storia. Tanto quanto ci disturba un ragazzino scaraventato nel mondo degli adulti, altrettanto ci disturbano gli adulti scaraventati nel mondo dei ragazzi. Spaesati da entrambi i lati, nessuno sa cosa dire o fare nella parte di mondo che non conosce. Con la sola differenza che per un adolescente è naturale non conoscerlo.

Gli adulti non riescono a stare nel dolore

«Dagli episodi emerge chiaramente la difficoltà di tutto il mondo adulto a intercettare e capire gli adolescenti che lo circondano. In famiglia, padre e madre entrano in una profonda crisi; a scuola, i docenti paiono del tutto stupiti e impreparati di fronte a certe dinamiche relazionali tipiche dell’adolescenza (come la ribellione, la solitudine, il bullismo, l’uso dello smartphone a lezione, etc.), che non sanno assolutamente come gestire» dice Ivano Zoppi.

Ashley Walters e Faye Marsay nei panni dell’ispettore Bascombe e del sergente Frank in “Adolescence”. Foto: Netflix

Lo psicoterapeuta Marco Bernardi aggiunge: «Adolescence è una serie sull’impotenza. Tutti sono impotenti. Da Katie, che è morta, all’ispettore che scopre di non conoscere affatto suo figlio. Gli episodi mostrano come il mondo degli adulti (non) riesca a stare nel dolore, nell’angoscia, nella responsabilità. Possiamo comunicare con qualcuno – continua Bernardi – solo se prima abbiamo comunicato con noi stessi. Possiamo avvicinarci al dolore di qualcun altro solo se non escludiamo il nostro, altrimenti non c’è sintonizzazione, solo razionalizzazione».

Noi “normali” conosciamo i nostri figli?

«Si sbagliano, non ha fatto niente. È palese e noi lo sappiamo». «Tu sei il mio tesoro, vero?». «Io sono un bravo padre e lui un bravo ragazzo». La vita di Eddie e Manca, papà e mamma di Jamie, viene squarciata insieme alla consapevolezza del proprio lavoro genitoriale, quando il figlio viene accusato di omicidio. «Avremmo dovuto accorgercene e fermarlo?» «Non abbiamo sbagliato niente». «Ero una brava mamma e lo sono ancora, ma l’abbiamo messo noi al mondo!». Le auto-rassicurazioni e le domande che i genitori si pongono a vicenda, in lacrime, un anno dopo, sono altrettanto strazianti.

Christine Tremarco e Stephen Graham nei panni di Manda e Eddie Miller in “Adolescence”. Foto: Netflix

L’attore e regista Stephen Graham ha spiegato a Netflix: «Avremmo potuto fare una serie drammatica sulle gang e sulle aggressioni con coltelli, o su un ragazzo la cui madre è alcolizzata o il cui padre è un violentatore. Invece volevamo che guardaste questa famiglia e pensaste “Mio Dio. Questo potrebbe succedere a noi!”. Il peggior incubo di una famiglia normale».

L’importanza della comunità educante

Una famiglia normale. Cosa significa? «La famiglia “normale” è quella dove c’è vero ascolto, dove i genitori si prendono lo spazio e il tempo per stare accanto ai propri figli, ma anche per parlare e confrontarsi con gli altri adulti che fanno parte della comunità educante» spiega Ivano Zoppi. Ma la vera domanda è: tutto questo basta? Un genitore si impegna, dà il meglio di sé, pensa di aver consegnato a suo figlio tutto ciò che era in suo potere perché diventasse un buon essere umano. Lo stesso pensavano di aver fatto anche Eddie e Manda. Solo che poi, un giorno, qualcuno ha sfondato la loro porta di casa e gli ha detto che da qualche parte hanno sbagliato. Sì, ma dove?

La giusta distanza tra genitori e figli

Eddie e Manda non conoscevano il loro figlio. Jamie non aveva davvero dato segnali oppure oggi si fa più fatica a distinguerli? «I ragazzi non danno segnali perché non trovano negli adulti un punto di riferimento. Quando incontriamo gli adolescenti, più del 90% ci dice che se fosse vittima o assistesse a una qualunque forma di bullismo non ne parlerebbe con nessuno. E i motivi sono tre: “proverei paura e vergogna”, “so ma non voglio dire” (omertà), “non saprei con chi parlarne perché non ho un adulto di riferimento” – dice Ivano Zoppi – Da un lato, quindi, c’è questa grande messa in discussione del ruolo degli adulti. Dall’altro, gli adulti non sono ingaggiati nell’ascoltare veramente i ragazzi. Che significa prima di tutto fare silenzio: a noi piace ascoltare la nostra stessa voce, molto spesso abbiamo già le risposte pronte e questo i ragazzi lo sanno, lo sentono, lo vivono. Percepiscono un adulto che non è veramente interessato a quello che dicono».

Ma quindi, dobbiamo comunicare o stare zitti? «Forse ci stiamo dimenticando che l’adolescenza è anche la fase in cui i ragazzi si devono staccare dai genitori. E seguire il mito della continua comunicazione genitore-figlio può inficiare la separazione, che è fondamentale in quanto compito evolutivo degli adolescenti» spiega Bernardi. «Quanto sappiamo della vita dei nostri figli? Se non conosco niente, è un problema. Se conosco tutto, è ugualmente un problema. Se sento di conoscere poco, cosa posso fare? Occorre una comunità di adulti che permetta agli adolescenti di essere conosciuti, ma lasciando loro la possibilità di farsi conoscere da chi desiderano e fino a quanto lo desiderano. Non per forza devono comunicare tutto a tutti, sempre e costantemente».

Allargare la prospettiva oltre la famiglia

Adolescence fa sicuramente riflettere sul rapporto genitori-figli ma, come già detto, dà una bella gomitata al mondo adulto tutto. Dice lo psicoterapeuta: «Nella serie non c’è un singolo adulto che sia riuscito a entrare veramente in contatto con gli adolescenti. Se registi e sceneggiatori hanno sottolineato proprio questo aspetto, io mi porrei delle domande». Devono fare tutto i genitori? Il mondo degli adulti come comunica? Quanto ascolta? «Bisogna allargare la prospettiva. Ci sono cose che è giusto che un adolescente non faccia con il genitore. Ci sono altre figure adulte che ruotano attorno ai ragazzi. La necessità, improcrastinabile, è che si uniscano, creando una comunità di esseri umani adulti che ragionino insieme, che facciano esperienze insieme, che giochino insieme». E che, sempre insieme, si prendano cura del dolore.

«La serie in fondo è tutto un dolore, dall’inizio alla fine. Il dolore di Jamie, che si dichiara innocente ma è chiaramente sofferente. Il dolore dei genitori. Il dolore della psicologa, che scoppia in lacrime alla fine dell’incontro. Il dolore dell’ispettore che vive la sua paternità nella totale impotenza» riflette Bernardi. Il modo in cui Adolescence è stata girata, senza stacchi né montaggio (ogni episodio corrisponde a una sola lunghissima ripresa), ci mette faccia a faccia con questo dolore senza darci la possibilità di respirare ogni tanto. «Il piano sequenza di Adolescence mi ha ricordato, da terapeuta, che esiste un altro modo per prendersi cura del dolore: starci dentro insieme alla persona che lo prova. Servono forza e coraggio, ma la sofferenza va vissuta e attraversata. Mi viene in mente la scena della famiglia Miller sul furgoncino: le portiere non si aprono, tutti zitti, nel tragitto soli con la loro disperazione. Mi chiedo: il terapeuta non può stare dentro quel camioncino?».

Stephen Graham, Amelie Pease e Christine Tremarco nei panni di Eddie, Lisa e Manda Miller in “Adolescence”. Foto: Netflix

Ogni adulto che guarda Adolescence deve farsi delle domande

Il finale della serie è l’ultimo pugno nello stomaco a conclusione di una raffica di pugni nello stomaco. L’ultima scena è emotivamente lacerante. Eddie è nella cameretta di Jamie, piange con un peluche in mano, soffoca un urlo di dolore nel cuscino di un lettino vuoto, e noi assistiamo per l’ennesima volta a un adulto fragile nel mondo di un ragazzo che non ha saputo capire per tempo. La dichiarazione straziante di Eddie, «Avrei dovuto fare di meglio», risuona come l’eco di un fallimento collettivo. Conclude Marco Bernardi: «Io da psicoterapeuta, chi ha scritto questo articolo da giornalista, qualcun altro da avvocato, da poliziotto o da genitore: ogni adulto che guarda Adolescence deve farsi delle domande».