«Se tu pensi di morire, non muori». È così, con la sua sfacciataggine un po’ guascona che sfida anche l’immortalità, che Fausto va incontro al suo destino. E noi non possiamo che amarlo, lui con il suo approccio laico e scanzonato alla vita, e tutto lo sgangherato clan che gli sta intorno nella nuova miniserie Netflix Storia della mia famiglia, sei episodi girati tra Roma e la Campania con un cast eccezionale: Eduardo Scarpetta (che interpreta Fausto, il protagonista), Vanessa Scalera (Lucia, la madre), Massimiliano Caiazzo (Valerio, il fratello di Fausto), Cristiana Dell’Anna (l’amica Maria), e poi Gaia Weiss (Sarah, moglie di Fausto), Antonio Gargiulo (Demetrio), Filippo Gili (Sergio) e i bambini Jua Leo Migliore e Tommaso Guidi (Libero ed Ercole).
Storia della mia mia famiglia: Fausto e la sua tribù
Una famiglia complessa e piena di contraddizioni, che tesse la sua storia attraverso il racconto di Fausto e del suo ultimo giorno. Malato incurabile a neanche 40 anni, sceglie di lasciare la sua eredità più preziosa (i figli appena ragazzini) all’improbabile tribù composta dalla madre e dal fratello, più gli amici d’infanzia, i suoi “fantastici quattro”. Ma i quattro sono tutto meno che fantastici e tutto meno che supereroi: sono persone piene di spigolature e ambiguità, ciascuna con un posto preciso nel mondo, ma tutte in fondo senza alcun posto perché ancora non l’hanno trovato. E tutte, sicuramente, alle prese con le proprie fragilità e soprattutto col dolore della perdita.
Qual è oggi la nostra famiglia?

È proprio questa grande tribù il cuore del racconto scritto da Filippo Gravino (con la co-sceneggiatura di Elisa Dondi). «La famiglia allargata – ci spiega lo stesso Gravino – è un dato di fatto di fronte al quale non ci possiamo sottrarre. È una verità, anche se a qualcuno fa meno comodo. È il quotidiano che tutti viviamo, in un mondo sempre più fluido anche negli spostamenti. Oggi tutti siamo quasi obbligati a riformarci una famiglia, che nasce come nucleo classico ma non può fare a meno di altre inserzioni. Io stesso, da campano trasferito a Roma, mi sono creato un’enclave di campani nella capitale, e così tutti noi ricreiamo un’altra famiglia nel luogo in cui ci trasferiamo, piena di amici, del passato e del presente».
La morte vera da scongiurare è la solitudine
Ma quello di dare vita a un ritratto variegato e sfaccettato della famiglia allargata non è un omaggio alla contemporaneità: è una necessità esistenziale. «È una precisa scelta come antidoto alla solitudine, che fa spavento e orrore» spiega il regista Claudio Cupellini. È quella la morte vera. «Il germe della vicenda è l’idea di voler raccontare un sistema affettivo che affonda nel biologico ma poi travasa in connessioni sentimentali infinite con amici, amici degli amici, figli degli amici, padri sbagliati, madri che non sono le tue, in un cerchio magico che non si chiude mai. Ma se vuoi stare dentro a questo cerchio, e amare e farti amare, devi saper perdonare, te stesso, gli altri e i loro errori». E la storia è piena di errori e incomprensioni, incidenti e comportamenti sbagliati, pur nelle migliori intenzioni. Proprio come le nostre vite e le nostre scelte, fitte di gesti goffi, parole uscite fuori male, pensieri camuffati che l’altro ti legge in faccia, tentativi di mettere pezze che sono peggio del buco.
Storia della mia famiglia: il segreto dell’amore è perdonare

«L’importante – dice il regista – è non puntare il dito contro nessuno, non giudicare. Non c’è mai un colpevole perché è la vita che ti porta a fare errori che devono essere perdonati». Man mano che il racconto si snoda, si compongono le ragioni di tutti: di Fausto e della sua incrollabile fiducia nella vita («Non ho paura della vita, non ho paura dell’amore: io sono immortale»); di Sarah e del suo senso di inadeguatezza nel fare la mamma; di Lucia, con le sue scelte criticate anche dai figli, dettate dal primo abbandono, quello del marito; di Valerio, confuso e alla continua ricerca di se stesso; di Maria, madre improvvisata di tutti, anche dei suo studenti; di Demetrio, in bilico tra l’entusiasmo e la rassegnazione. La serie, in un continuo flashback, ci porta dall’ultimo giorno di Fausto al suo passato, quando si innamora di Sarah e insieme formano la loro famiglia, piena di inciampi e problemi, con differenze culturali profonde e tutte le difficoltà delle coppie alle prese coi figli piccoli. E così, tra una risata e una lacrima (la serie appartiene al dramedy) ci addentriamo nelle vite dei personaggi che, ognuno a modo suo, si trovano a gestire la responsabilità dei bambini di Fausto, rimasti senza papà e con una mamma al momento non pervenuta.
Come dire ai figli che non ci sarai più?
È una scelta precisa quella di nascondere la verità ai bambini fino alla fine. Una scelta discutibile, anche per Fausto. «Fausto viene criticato dalla sua stessa famiglia, ma non per questo è meno sincero: la sua trasparenza non è data dal mettere i figli di fronte a una verità traumatica» dice il regista. «La sincerità emerge dalla progressione del racconto ed è tutta l’energia e la forza di Fausto di regalare la sua autenticità ai bambini fino in fondo, cioè di esserci, sempre e comunque. Ognuno decide, in una situazione del genere, come muoversi. Ciò che muove Fausto è un amore folle, un sentimento che lo porta a voler proteggere i suoi figli dalla sofferenza e da tutto ciò che può essere inutile. Altri potrebbero voler vivere in modo diverso, speciale, gli ultimi momenti insieme: noi abbiamo scelto la normalità assoluta, le giornate divise tra scuola e casa, per poi affidare ai messaggi vocali di Fausto il suo ricordo e soprattutto i suoi consigli di uomo ai figli». Un ricordo struggente ma mai lezioso, fitto di parole buffe che strappano il sorriso, rievocazioni dolcissime e, appunto, consigli scanzonati, un po’ guasconi come il personaggio di Fausto. Per non prendersi troppo sul serio, neanche alla fine.