Correva l’anno 1988 e il regista Mike Nichols portava nelle sale un film destinato a fare la storia, non solo del cinema, anche dell’emancipazione femminile: Una donna in carriera. Nello stesso anno in edicola usciva il primo numero del primo settimanale femminile di servizio che si occupava anche del lavoro delle donne: Donna Moderna.

Il film “Una donna in carriera”

Commedia caustica in cui una laccatissima Melanie Griffith, di professione segretaria, faceva le scarpe alla sua capa, Sigourney Weaver, con charme ingenuo e cervello fino. A offrire il pretesto, un’accidentale caduta dagli sci che metteva fuori uso la tirannica top manager, lasciando alla sua abile assistente strada libera per soffiarle poltrona e fidanzato. Lui era quel figo di Harrison Ford, a cui un’irresistibile Joan Cusack, anche lei con cofana sontuosa, rivolgeva la battuta memorabile che tutte noi poi ci siamo rivendute: «Caffè, tè, me?».

A parte il finale un po’ scontato e le evidenti responsabilità dell’addetto al trucco e parrucco sulle future catastrofi ambientali (il buco dell’ozono dev’essere iniziato lì), quel film è stato una tappa emblematica nella lunga marcia delle donne nel mondo del lavoro. Non solo perché celebrava l’epica americana del self made man riformulandola su gonna e tacchi a spillo, ma perché inquadrava storicamente e in modo egregio quel primo ingresso delle mosche bianche nelle stanze dei bottoni.

Un mondo di uomini

Sigourney Weaver è la perfetta interprete di quel prototipo di donna in carriera che ha fatto scuola per gli anni a venire, antesignano dell’esemplare multitasking (quello del “voglio tutto”, per intenderci) che poi ci ha portate dritte al burnout. Spigliata, assertiva, spietata, vendicativa. Single per scelta e per vocazione. Una virago col tailleur, che simula affabilità ma è in realtà senza scrupoli. Così concentrata su se stessa da spiaccicare e ridurre in polpetta chiunque osi intralciarle il cammino. Sleale per necessità, competitiva per sopravvivenza. Costretta a fare la “uoma”, come si usava dire allora, per camuffarsi in un mondo di maschi.

Sigourney Weaver in “Una donna in carriera” (1988)

Donna Moderna

Nello stesso anno in cui Tess McGill spodestava dal trono Katharine Parker, mostrando al mondo che dietro una “capa-tosta” può sempre essercene una peggiore, ma spesso ben mascherata dal gloss (Melanie Griffith è una finta buona), usciva in edicola Donna Moderna, primo settimanale femminile di servizio che si occupava (anche) di lavoro. Perché alle lettrici quello interessava: non solo vip, ricette e belletti, ma pure stipendi e partite Iva, consigli pratici di indipendenza. Lo dico con orgoglio, rivendicando il ruolo del magazine nella conquista della libertà.

I dati sull’occupazione femminile

Secondo un report dell’Istat sul trend dell’occupazione in Italia dal ’77 al nuovo millennio, il tasso di presenza femminile è andato in quei decenni via via crescendo, passando da inizio anni ’80 ai primi 2000 dal 33% al 51%. Segno che quel periodo è stato per noi di svolta. Da allora il dato si è quasi inchiodato. Oggi le donne che hanno un mestiere sono il 53% della popolazione totale, contro il 69% della media europea. Solo il 4% riveste il ruolo di Ceo.

Sigourney Weaver: da una donna in carriera al leone d’oro

Insomma, sui numeri siamo messe malino. Ma qualche benefit lo abbiamo acquisito. Invece che farci la guerra, abbiamo capito che è meglio fare rete. Piuttosto che scimmiottare i maschi, stiamo sperimentando nuovi modelli di leadership, meno muscolari e più gentili, che tengono insieme vecchi e nuovi ruoli, piani di business e pannolini. La strada è lunga, ma ci stiamo provando.

E nel tentare di “cambiare paradigma”, diciamo grazie a tutte coloro che hanno contribuito a portarci fin qua. Compresa Sigourney Weaver, che ci ha mostrato in quel film dell’88 come non volevamo essere (stronze)… ma in fondo un poco sì. E in tanti altri dei 60 che ha fatto, quello che invece volevamo fortemente, offrendoci un campionario di eroine che ha ripensato la figura femminile, più indipendente e meno sdolcinata. Per questo festeggiamo il suo Leone d’oro alla carriera. Perché è la vittoria di tutte noi. Aliene in un mondo che vuole incasellarci, e sempre pronte a conquistare il cielo