Arriva il 1 aprile 2021 su Netflix una nuova serie per le amanti della moda, I vestiti raccontano. Ma se vi aspettate l’ennesimo contenuto focalizzato su brand super famosi e lussuosi vi sbagliate, perché in questo caso l’approccio al tema è completamente diverso.

Complice l’ascesa dei marchi fast fashion, negli ultimi anni si è diffusa l’idea di una moda effimera e passeggera, quello che è cool oggi sarà sicuramente out tra sei mesi, e questo impone a chi vuole sentirsi sempre di tendenza, di non far durare gli abiti più di una stagione.

Oltre a essere poco sostenibile dal punto di vista economico ed ecologico però, si tratta di un modus operandi che impedisce di cogliere davvero la bellezza di un abito ed apprezzarne anche i piccoli segni dell’usura, che ne caratterizzino anima ed essenza.

Ed è proprio da questo concetto, e dall’idea che i vestiti a cui si è particolarmente legati non siano solo vestiti, che si base la narrazione della nuova docu-serie originale Netflix.

I vestiti raccontano: cos’è

La mini serie si compone di 8 episodi ed è basata sul best-seller Worn Stories, scritto da Emily Spivack, giornalista del The New York Times e artista a tutto tondo, creatrice tra le altre cose dell’installazione dedicata a Barack Obama, Medium White Tee.

Da anni, Emily Spivack si concentra sulla narrazione che si nasconde dietro agli oggetti di uso quotidiano e dal 2010 raccoglie storie di persone, sia celebri sia comuni, legate a filo doppio ai loro abiti preferiti. Non i più belli, ma quelli che rappresentino qualcosa di speciale a livello emotivo.

«Ci mettiamo vestiti addosso ogni giorno e affrontiamo il mondo indossandoli. Questi vestiti sono il condotto per molte esperienze diverse. Mentre siamo seduti al tavolo di un caffè e guardiamo i passanti, ognuno di essi indossa qualcosa che ha scelto di indossare. Questo dice qualcosa sulla nostra cultura. È antropologico, sociologico».

Un nuovo modo di intendere la moda

I vestiti raccontano, dunque, considera gli abiti non come il fine ma piuttosto il mezzo attraverso il quale vivere la propria esistenza al meglio. Nelle puntate non si parla di loro in modo freddo ma delle emozioni che scaturiscono a chi li indossa e tutto la narrazione cerca di trasmettere il messaggio secondo il quale non conti il brand o quanto siano lussuosi o ricercati i nostri abiti, piuttosto come ci facciano sentire.

Tutte noi abbiamo quella maglietta che non buttiamo nonostante sia ormai scolorita per le infinite lavatrici, o quella gonna del liceo sicuramente fuori moda ma che ogni volta che la indossiamo ci fa battere il cuore come la prima volta.

Piccole e personali copertine di Linus dalle quali non ci separeremmo e non ci separeremo mai. Lo storytelling della serie si basa proprio su questo e per farlo segue le vicende di persone molto diverse tra loro, che raccontano il loro personale rapporto con i vestiti ai quali sono più legati.

Nessuna influencer o fashion victim è presente nei video, solo persone comuni che di fronte alla telecamera aprono le porte dei loro armadi, facendone uscire pezzi unici, ovvero irripetibili perché oltre alla stoffa di cui sono fatti, hanno impresse le esperienze e le emozioni di chi li ripone ogni sera con cura.

Il loro valore è quindi inestimabile, anche quando vengono da mercatini lontani anni luci da una boutique sulla Fifth Avenue.

Il trailer

https://www.youtube.com/watch?v=6eH-6tu3qPI

In attesa di guardare una dopo l’altra le puntate di questo affascinante viaggio nei guardaroba altrui, Netflix ha diffuso il trailer ufficiale di pochi minuti, che permette di entrare parzialmente nel mood.

La prima a comparire sulla scena, curiosamente, è una coppia di nudisti, che hanno deciso che per loro i vestiti non contino granché.

Un paradosso narrativo che facendo da contraltare al tema della serie, introduce nel vivo di quello che sarà, con una carrellata dei soggetti che ritroveremo in ogni puntata, protagonisti del loro personale racconto. Si va da un’addetta alla sicurezza in divisa che afferma «Posso essere una sorvegliante di giorno e un ninja di notte», all’astronauta che per una missione spaziale per la quale era consentito portare solo un abito personale, ha scelto la felpa dell’Università perché «mi ricorda che i sogni possono avverarsi».

Ci sono poi un ragazzo che scopre la gioia di indossare tacchi a spillo e un ex detenuto che una volta scontata la propria pena ed uscito dal carcere decide subito di andare a fare shopping e comprare un po’ di vestiti per «riappropriarmi della mia identità». E ancora, una vedova che indossa l’ultimo abito regalatole dal marito, in ricordo dei loro momenti felici.

Tante storie, tutte agli antipodi ma legate da un filo rosso molto resistente, che si basa sull’idea che l’abito non faccia il monaco, certo, ma che ricordi, aneddoti ed esperienze, possano legarsi a centimetri di stoffa che prima di essere indossati erano solo tali, ma dopo diventano la divisa personale di ognuno, con la quale presentarsi al mondo.