Parlare con lui lenisce. Perché plana sulle parole con delicata incisività. Le sceglie una a una, lento, con cura. Tocca con sensibilità le corde urgenti della nostra generazione, musicando un richiamo che non può restare inascoltato. Federico Cesari, romano, 27 anni e una laurea in Medicina, torna in tv con la seconda stagione di Tutto chiede salvezza, ora su Netflix. La serie “must-watch” di Francesco Bruni, tratta dall’omonimo romanzo di Daniele Mencarelli premio Strega Giovani 2020, racconta la storia di Daniele Cenni, un 20enne che si risveglia in un ospedale psichiatrico senza sapere o ricordare il perché. In seguito a un crollo psicotico viene sottoposto a un Tso e in quel reparto, che all’inizio pare un incubo, imparerà a conoscere i compagni di stanza e le loro sofferenze, cercando intanto di alleviare la sua e dare un perché a quella di tutti.

La nostra intervista a Federico Cesari

I tuoi personaggi, sia Martino in SKAM Italia sia Daniele in Tutto chiede salvezza, accendono i riflettori su questioni importanti: l’omosessualità e la salute mentale. È una vocazione, la tua?

«Non mi piace incensarmi, ho semplicemente avuto la fortuna di trovare progetti belli e al tempo stesso incentrati su tematiche attuali e socialmente importanti, soprattutto per noi giovani. Io faccio il lavoro che amo, al meglio delle mie possibilità, cercando progetti affini al mio modo di pensare e di interessarmi alle cose del mondo».

Com’è stato interpretare un personaggio così sensibile e complesso come Daniele?

«Complicato e doloroso. È stato un lavoro umano prima ancora che professionale. Ho riallenato l’empatia e cercato di restituire un’impronta più umana alla mia sensibilità, anestetizzata dagli usi e dai modi della nostra società. Siamo così bersagliati dalla sofferenza che ci abituiamo a vivere costruendoci muri tutt’attorno, per proteggerci. Ecco, per interpretare Daniele ho dovuto oltrepassare quei muri e vedere ciò che stava dietro. Grazie a (e non per colpa di, tiene a specificarlo, ndr) Tutto chiede salvezza sono andato in psicanalisi: scoprire nuovi aspetti di me, avvicinarmi così tanto alla mia umanità, ha comportato un’onda di sentimenti che ho dovuto imparare a gestire. Lavorando su Daniele, ho lavorato anche su di me».

Come sono andate le riprese della seconda stagione?

«Non vedevo l’ora che iniziassero, sono molto affezionato a tutte le persone che hanno lavorato al progetto. Sui set di Francesco (Bruni, il regista, ndr) si crea un ambiente familiare. Certo, rifare quel viaggio ha significato anche riaffrontarmi, tornare a lavorare su ciò che di inedito scoprivo di me stesso interpretando una nuova fase della vita di Daniele».

Che non è più un paziente, ma un infermiere. Come hai vissuto questo cambio di prospettiva?

«È stato molto complicato per me trovare un equilibrio tra il Daniele paziente e il Daniele infermiere. La sua difficoltà più grande in questa stagione è proprio ritrovarsi a metà tra i due mondi, che noi tendiamo a separare e che lui invece deve ricongiungere. È l’anello di mezzo che, se da un lato continua a essere schiavo della sua sofferenza, dall’altro è chiamato a contenerla per via di obblighi e responsabilità sociali».

Federico Cesari e Fotinì Peluso nella stagione 2 di Tutto chiede salvezza
Federico Cesari (Daniele) e Fotinì Peluso (Nina) in “Tutto chiede salvezza 2”, su Netflix dal 26 settembre: 5 episodi per 5 settimane, in cui il protagonista – ora infermiere tirocinante e papà – si confronterà con nuovi volti e sentimenti.

Daniele è un ragazzo ipersensibile che vede il nero del mondo e a cui la vita sembra pesare più degli altri. Domande enormi e poche risposte sensate: è questo il nostro malessere, oggi?

«Sì, credo che noi oggi viviamo in un mondo che ci porta sempre da qualche altra parte. Abbiamo ereditato un approccio alla vita molto mentale che, se da un lato ci rende più empatici, persino con ciò che si verifica a migliaia di chilometri di distanza, dall’altro ci ingabbia. Credo che il sentimento più ingombrante della nostra generazione sia la paura, ne siamo costantemente attanagliati. Io in primis».

A un certo punto del racconto la dottoressa dà a Daniele un quaderno. Così lui riscopre il potere lenitivo della scrittura. Tu come ti riconnetti con te stesso?

«Un grande conforto arriva dalla meditazione. Mi aiuta a prendere la sfera di pensieri ed emozioni che vivo proiettati esclusivamente su eventi futuri o su situazioni che non riesco a controllare e a metterli all’interno del mio oggi. E della mia corporalità. Focalizzarmi sulle esigenze più piccole e vicine mi aiuta a calmarmi e a stare meglio».

C’è una battuta nella sceneggiatura di Tutto chiede salvezza che ti ha particolarmente colpito?

«Sì. Una delle mie parti preferite della seconda stagione è una frase pronunciata dal dottor Mancino. Che a un certo punto dice al Daniele col camice: “In un reparto di psichiatria, tra noi e loro, tra i medici e i pazienti, c’è una sola differenza: il caso”. Spesso ce lo dimentichiamo, ma la sofferenza appartiene a tutti noi, in quanto esseri umani».

Anche per questo la serie è stata apprezzata dai giovani, che vi hanno trovato storie di dolore e difficoltà in cui riconoscersi. Qualcuno di loro ti ha cercato o scritto?

«Moltissimi, ed è stato un grande regalo. Non avevamo certo l’ambizione di dare una risposta univoca e vincente alla sofferenza condivisa. Ma era importante sollevare queste domande e ricordare che appartengono a tutti. Possiamo addormentarci la sera sapendo che sono più collettive di quel che pensiamo, e noi meno soli ad affrontarle».

È centrale anche il tema delle relazioni, d’amicizia e d’amore. Come hanno salvato Daniele? E come possono salvare anche noi?

«Le relazioni sono fondamentali, a Daniele hanno dato la possibilità di riconoscersi in altre persone e scoprire così di non essere solo nella sua sofferenza. In fondo è questo che ricerco anch’io: la condivisione dell’esperienza con altre persone. Le relazioni ci salvano perché ci ricordano che non siamo gli unici al mondo a pensare certe cose o a farsi certe domande».

L’anno scorso hai partecipato al progetto #WithYou di Unicef con il Gemelli di Roma, che offre supporto psicosociale a giovani e famiglie.

«Sono stato molto felice di contribuire. Ho avuto la possibilità di confrontarmi con i ragazzi, il loro disagio e le loro difficoltà. Che poi sono anche le mie, le nostre, della fase di vita e del periodo storico in cui ci troviamo. Ma è stato bello confrontarmi anche con le famiglie, cercare con loro il modo migliore per venirsi incontro, che alla fine coincide sempre con l’ascolto reciproco».

Cos’hai imparato invece studiando Medicina?

«Al di là dell’aspetto nozionistico, che comunque mi ha sempre appassionato, in questi 6 anni ho imparato cosa voglia dire avere una vocazione osservando le persone che ce l’hanno per davvero, che dedicano tutta la loro vita alla cura degli altri. E non mi riferisco solo all’atto medico, ma anche e soprattutto al supporto psicologico. Quello ospedaliero è un mondo complesso, in cui spesso i medici non riescono a gestire in toto il paziente, non per demerito ma per le condizioni di lavoro. Serve una profonda dedizione, che assorbe completamente l’esistenza. Vedo la mia ragazza, medico, uscire tutti i giorni di casa alle 7 e tornare alle 20. Io dopo la laurea ho interrotto il percorso perché non sentivo di avere la forza di volontà necessaria per una tale missione».

C’è un motto che racconta bene di te?

«Non è proprio il mio motto, ma una frase a cui ultimamente penso spesso: “Chi sa una cosa vale meno di chi la ama”. La nostra vita è tanto, troppo filtrata dal continuo analizzare, dalla razionalità del pensiero, dai preconcetti. Forse dovremmo tornare ad amare le cose per come sono».

Uno di noi, piuma tra le piume

Possibile che nessuno s’accorge che semo come ‘na piuma? Basta ‘no sputo de vento pe’ portacce via

Si apriva con queste parole, in un inconfondibile dialetto romano, la prima stagione di Tutto chiede salvezza. Con una riflessione sulla nostra fragilità, sulla sottigliezza della cinta che ci costruiamo attorno per difenderci da ciò che è strano, brutto, difficile, malato. La verità, su cui Federico Cesari e l’intera serie (con relative storie e personaggi) ha puntato un significativo occhio di bue, è che siamo più simili di quel che pensiamo. Che a volte sulla “nave dei pazzi” salpiamo anche noi, o qualcuno che abbiamo accanto. Che le detestabili domande sulla vita – Perché le brave persone si ammalano? Come mai gli innocenti muoiono? L’amore e l’umanità possono sopravvivere al dolore? Qual è il senso della sofferenza? – fanno parte di tutti, fanno parte dell’esistenza, fanno parte del nostro essere umani.

Del resto, pensiamoci. In quante teste ci sono più punti-e-a-capo che punti interrogativi? In quante, delle vite che viviamo e conosciamo, le certezze superano i dubbi? Poche, forse nessuna. Visto da vicino nessuno è normale, ripeteva Franco Basaglia (e sottotitola la serie di Bruni). Abbiamo tutti un po’ paura. Siamo tutti impigliati qui o là nelle molteplici pieghe del dolore, ognuno condottiero delle sue battaglie. Come dice il dottor Mancino, è unicamente il caso a distinguere “noi” da “loro”. La salvezza non la chiede soltanto chi è ricoverato in un reparto psichiatrico, la chiediamo un po’ tutti. Tutti noi che siamo piume. Sempre volteggianti, “esposte ai capricci del destino”. Che a volte basta uno sputo di vento a portarci via, da una parte o dall’altra del campo della vita.