Dopo il provino per Dostoevskij, la serie noir di cui sono autori, i fratelli D’Innocenzo hanno guardato fuori dalla finestra e visto un uomo abbracciato a un albero. Era Filippo Timi, uscito 2 minuti prima dall’incontro con loro.
«Ero talmente emozionato!» ride lui, protagonista dei 6 episodi ad alta tensione che, prima di arrivare su Sky e Now in autunno, saranno in sala dall’11 al 17 luglio per la gioia dei binge-watchers. «Volevo raccontarlo subito a un’amica, ma non rispondeva al telefono, così mi sono avvinghiato a quel tronco in piazza Vittorio a Roma».
Timi ci teneva moltissimo a lavorare con i gemelli Damiano e Fabio, sceneggiatori e registi di La terra dell’abbastanza e Favolacce. «Raggiungono profondità dell’animo che appartengono ai grandi della letteratura, mostrano fiori in paesaggi di grande disagio» dice. Nella serie interpreta un detective ombroso, ruvido, ai ferri corti con il suo passato, che si ritrova a caccia di un serial killer proprio mentre cerca di recuperare il disastroso rapporto con la figlia 20enne (interpretata da Carlotta Gamba).
La nuova serie con Filippo Timi
Dostoevskij è il soprannome dell’assassino che gli dà il mal di testa, lasciando un testo dal sapore letterario a firma di ogni massacro. «Che casino di personaggio!» sdrammatizza il 50enne attore umbro nel raccontare gli abiti scomodi di un uomo che i D’Innocenzo, presentando la serie all’ultima Berlinale, hanno definito “nell’inverno della vita”. «Ho dovuto mantenere il viso sofferto in 296 scene. Guai a mostrare i denti, via ogni minima smorfia che potesse vagamente somigliare a un sorriso».
Lui invece è uno che ride molto, anche in questa chiacchierata. A dispetto degli ostacoli che si è ritrovato ad affrontare: la balbuzie ora quasi scomparsa, il morbo di Stargardt che gli fa vedere solo i contorni. È uno dei nostri attori più versatili e sensibili. Alterna film drammatici come Le otto montagne dal romanzo di Paolo Cognetti e Rapito di Marco Bellocchio a serialità di intrattenimento come I delitti del BarLume, dal 2013 su Sky. Ed esprime la sua vena creativa e irriverente nei testi di cui è autore, mescolando tradizione e cultura pop, da Favola alla parodia di Amleto2, fino al prossimo Scopate sentimentali, omaggio a Pasolini al Teatro Parenti di Milano dall’11 al 13 settembre.
Intervista a Filippo Timi
Come ha ottenuto quell’espressione tormentata?
«Ho pensato a Enzo come a un paesaggio quasi preistorico. I D’Innocenzo mi chiedevano di immaginarlo come un uomo che sta diventando pietra, mi dicevano che dovevo un po’ nascondermi quando la macchina da presa mi veniva incontro, come quelle persone che d’istinto si mettono nell’angolo quando qualcuno scatta una foto. Mio padre sarebbe così, non si metterebbe mai al centro. Perché si è sempre considerato una nullità».
Non vi somigliate, quindi?
«Diciamo che osservando lui ho capito l’origine del mio disagio, come figlio. È l’uomo più buono che conosca, ma vive in sottrazione, sempre silenzioso. A volte lo provoco. Gli ho detto: “Papà, perché non parli di più con la mamma? Raccontale la tua infanzia”. E lui: “Ma se mi consideravano uno zero”. Allora gli ho tirato una bomba stupenda: “Guarda che anche uno zero c’ha avuto l’infanzia!”. Che tenerezza, ha 86 anni, nessuno gli ha insegnato a rialzarsi dopo le porte in faccia. Quando sono morti i suoi fratelli, gli ho detto: “Oh pa’, ora puoi anche mandarli affanculo!”».
Lei ha cercato di essere l’opposto?
«La felicità te la devi concedere, costa coraggio».
Filippo Timi tra palco e realtà
Fare l’attore è stato il suo modo per smarcarsi?
«Da ragazzino non ci avevo mai pensato. Ho fatto l’istituto d’arte con indirizzo di design, a Perugia. I miei non potevano pagarmi un percorso costoso. Poi mi sono iscritto a Filosofia, mi piaceva ma non era il mio ambiente. Un giorno per fancazzismo ho accompagnato un amico a un corso di teatro a Pontedera e, visto che c’erano troppe ragazze, mi ci hanno buttato dentro: ho iniziato a recitare solo grazie al maschilismo dell’ambiente teatrale. Ho provato, mi sono divertito e ho scoperto una dote».
Ne ha scoperte molte, di doti, e pure gli studi di design saranno serviti, visto che è autore e regista dei suoi spettacoli. Cinema, scrittura e teatro sono modi diversi di esprimersi?
«Scrivere è quello che più ti avvicina a sentirti Dio: sei da solo a creare una storia senza bisogno di nessuno, è come vincere l’incomunicabilità. Io scrivo soprattutto per il teatro, che è vivo: la scena è la prova immediata della creatività, devi essere lì, presente ogni sera. Il cinema invece è un lavoro di squadra e mentre reciti vedi il catering o le comparse che si annoiano. Quando mi rivedo mi accorgo di quello che non posso più correggere. È come guardare le foto del matrimonio: un altro può vedere la gioia, tu pensi a quanto t’è costato il pranzo. Perciò i film li faccio, ma tengo la tv spenta».
È vero che è rimasto scioccato vedendosi nudo in una scena di Dostoevskij?
«Sì, soprattutto vedendomi il culo, perché è una prospettiva dalla quale non mi guardo mai, per giunta in una scena che mostra l’estrema fragilità del protagonista. È forte e poetica. Ma forse mia mamma avrà da dire… (ride, ndr)».
Vede tutti i suoi lavori?
«E perché non dovrebbe? È una generazione che ha visto di tutto, anche la guerra».
Preferirà I delitti del BarLume.
«Certo, lo accende anche solo per sentire la mia voce in casa. È il racconto più lungo della mia vita ed è un po’ magico anche per me, su quel set c’è una sintonia che ci lega tutti».
Nel cast c’è Lucia Mascino, che è anche una sua grande amica. Ha raccontato che, quando vi siete conosciuti, lei faceva la ruota con una mano. Ora?
«La faccio con la fantasia. Ciao agilità, a quest’età ti spacchi le gambe, al massimo fai un po’ stretching».
Che effetto le ha fatto compiere i 50, quest’anno?
«Li vivo come un numero pari, come la metà di 100. Ogni tanto ti viene da guardare la metà indietro, ma c’è anche attesa per la nuova metà».
Vede sempre il bicchiere mezzo pieno?
«No, quell’idea la applico agli attimi della vita, che è sempre un’oscillazione tra il più e il meno, tra quello che hai e quello che ti manca, tra senso di impotenza e di onnipotenza. Pensare che la felicità penda tutta da una parte è troppo banale. Emancipiamoci. Non si gode a grissini, ci vuole anche il prosciutto. Ma ha senso detto così?»