«I ghiacciai sono manoscritti congelati che raccontano delle storie, proprio come gli anelli dei tronchi d’albero o gli strati di sedimentazione, da cui attingiamo informazioni con cui comporre un’immagine del passato. Immagazzinano la storia delle attività vulcaniche, conservano polline, acqua piovana e bolle d’aria che rivelano la composizione chimica dell’atmosfera di decine di migliaia d’anni fa: sono importanti fonti di informazione sulle precipitazioni e sulla vegetazione del nostro passato». Così scrive Andri Snær Magnason in Il tempo e l’acqua (Iperborea) per raccontare la sua Islanda. Lo incontro in una caotica giornata milanese, nel pieno della settimana del Salone del Mobile. La curiosità è tanta. Scrittore e attivista, racconta di ghiacciai che si sciolgono e di un Paese all’avanguardia nello studiarli per capire e affrontare il climate change.
Chissà se, mentre siamo seduti al tavolino del bar, sta pensando a quanta CO2 produce volando in tutta Europa per presentare il libro in cui intreccia la storia della sua famiglia con quella del suo Paese. Una Nazione la cui vita, società ed economia si fonda sui ghiacciai, sul rapporto con la natura immensa. Magnason mescola dati scientifici e ricordi delle escursioni dei suoi nonni sui ghiacciai. Riflette come il tempo degli uomini e dei ghiacci sia concatenato. Eppure quello dei ghiacci si è ridotto sempre più velocemente, fino quasi a scomparire. «Ho scritto questo libro per prevenire lo scioglimento dei ghiacciai, voglio abbassare il livello del mare. Cinquanta anni fa sarebbe stata l’idea di un pazzo. Oggi è la scienza» mi dice.
Islanda, la “terra dei ghiacci”
Islanda in norreno, la lingua dei vichinghi, significa “terra dei ghiacci” perché una larga parte del Paese è coperta da questa distesa bianca e fredda. I ghiacciai sono parte della cultura ed elementi su cui si è costruita anche la sussistenza. Alimentano miti e vengono considerati esseri viventi.
Il Vatnajökull nel 2019 copriva il 10% della superficie dell’isola, con circa 3.200 chilometri cubici. Ma, dice Magnason, «nel corso del 20° secolo si è ridotto del 10%, arretra di oltre mezzo metro all’anno e ha finora contribuito per un millimetro all’innalzamento del mare». L’Okjökull, che era largo 19 chilometri quadrati, già non c’è più, si è ridotto a un chilometro di ghiaccio morto. Per commemorarne la scomparsa Andri ha lasciato al suo posto una lapide, una “Lettera al futuro” che recita: «L’Okjökull è stato il primo ghiacciaio a perdere il titolo di ghiacciaio. Nei prossimi 200 anni tutti i nostri ghiacciai potrebbero seguire la stessa sorte. Questo monumento è la testimonianza che sappiamo cosa sta avvenendo e cosa bisogna fare. Solo voi sapete se lo abbiamo fatto». La cosa più impressionante, mi spiega, «non è tanto il cambiamento del paesaggio – dove c’era il ghiaccio emerge una natura altrettando bella – quanto la rapidità con cui avviene».
Il cambiamento riguarda anche gli oceani
Un cambiamento locale che ha un significato globale. E che riguarda anche gli oceani. «L’Islanda ha una superficie di 103.000 chilometri quadrati» scrive Magnason «ma le acque territoriali sono molto più estese portando la superficie totale a circa 758.000 chilometri quadrati. Si può dunque dire che l’Islanda è per l’87% mare». Un mare popolato da foche, delfini, balene. Ed è anche alla loro sopravvivenza che l’attivista ci invita a pensare. «Una cosa a cui prestiamo poca attenzione è l’acidificazione degli oceani, uno degli eventi geologici di maggior impatto subiti dalla Terra negli ultimi 50 milioni di anni».
L’acidificazione è il risultato dei ghiacci che si sciolgono e del mare che si scalda, vuol dire abbassamento del Ph dell’acqua con conseguenze disastrose per la fauna e la flora a livello mondiale. E anche, per esempio, per quegli uccelli che si nutrono di pesci e che sono destinati all’estinzione. Tutto è concatenato nella delicata e perfetta biosfera. E tutto è il risultato di uno stile di vita che abbiamo creato noi. «Le generazioni passate hanno cercato di fare qualcosa di buono per la qualità della vita di quelle future: costruire migliori ospedali, strade e infrastrutture. Ora invece stiamo vivendo in un mondo insostenibile, che non sta creando nulla di buono. È un dilemma esistenziale». Ma cambiando il nostro modo di vivere, sia sul piano individuale sia a livello di governo, qualcosa si può ancora fare.
L’Islanda è un laboratorio di politiche green
Oltre a essere la terra dei ghiacci, l’Islanda è anche un laboratorio di politiche green. La diminuzione degli sprechi, l’economia circolare, le infrastutture sostenibili sono solo alcuni esempi. Reykjavik, la capitale, con circa 120.000 abitanti su un totale di 366.700 e con una intensa attività di vulcani e geyser, è totalmente riscaldata con l’energia geotermica che arriva dal sottosuolo. E che scalda l’acqua e le case, le serre che producono frutta e verdura, le piscine all’aperto e, con i tubi che passano sotto il manto stradale, previene perfino il ghiaccio sulle strade
«L’Islanda è un laboratorio perché è una piccola isola che importa idee dall’Europa ma poi le discute e le rielabora adattandole all’ambiente e alla popolazione. Qui tutto avviene molto velocemente» dice Magnason. Mi fa l’esempio della crisi finanziaria del 2008 e di come la ripresa sia partita dal turismo. Mi parla di welfare, democrazia, parità di genere, e di quanto siano strettamente collegati alle politiche green. «Siamo un’isola ma ci consideriamo una metropoli. L’Islanda è un bel posto in cui vivere, c’è tanta varietà e la gente sa che qui può trovare la possibilità di far crescere il proprio talento».
Dopo 2 anni di pandemia, e un lockdown rigido come il nostro, a luglio sono usciti i risultati incoraggianti di un test condotto dal 2015 al 2019 su 2.500 dipendenti (l’1% della forza lavoro nazionale), per i quali l’orario di lavoro è stato ridotto da 40 a 35 ore alla settimana. La filosofia? Lavorare meno per lavorare tutti senza abbassare il salario, ma anche per migliorare la qualità della vita e ottenere un significativo risparmio energetico. I lavoratori ringraziano, la Terra anche.
Gli esperimenti in Islanda non mancano: per ridurre l’emissione di gas serra il governo ha deciso di ripristinare le aree acquitrinose che nel secolo scorso erano state prosciugate per aumentare le aree coltivabili. Una misura che però ha portato all’aumento del 30% delle emissioni di CO2 derivanti dalla torba.
È appena stato inaugurato un impianto in grado di catturare l’anidride carbonica dall’atmosfera e stoccarla a 1.000 metri di Profondità nel sottosuolo
La più grande innovazione è di questi ultimi giorni, e fa ben sperare. Si tratta di un impianto costruito vicino a Reykjavik e chiamato Orca (in islandese “orka” significa energia): cattura l’anidride carbonica dell’aria e la stocca nel sottosuolo a una profondità di 1.000 metri, arrivando ad assorbire ogni anno 4.000 tonnellate di CO2. Un procedimento che se sarà adottato da altri Paesi – dice il Gruppo intergovernativo sull’evoluzione del clima – potrà limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5 gradi, ovvero l’obiettivo dell’accordo di Parigi del 2015. Il progetto è di una start up svizzera che ha trovato in Islanda il territorio ideale per metterlo in pratica, ed è un primo passo molto importante per affrontare la crisi climatica. Perché, dice Magnason, «occorre agire pensando a un futuro lontano. Il futuro delle prossime generazioni e del Pianeta».
IN LIBRERIA
In Il tempo e l’acqua (Iperborea) lo scrittore e attivista Andri Snær Magnason intreccia storie di famiglia e conversazioni sul futuro, miti e dati scientifici sul suo Paese, l’Islanda, e ricerche sullo stato di salute del Pianeta. Mescola saggio e memoir individuando 3 fronti su cui agire:
1. Riduzione degli sprechi alimentari e del consumo di carne.
2. Incremento dell’energia solare ed eolica ed elettrificazione dei trasporti.
3. Tutela dei boschi, ripristino delle zone umide e delle foreste pluviali.