Rosa di pelle, celeste di occhi, Bianca di nome, il suo arrivo illimpidisce il cielo grigio da mesi. A giugno, quando passiamo d’un botto dai riscaldamenti all’aria condizionata, il problema si manifesta in tutta la sua gravità. «No, con questo caldo la picciridda in città non ci può stare» decretano le femmine della mia famiglia, compresa la bisnonna. Con i suoi 89 anni, il suo giudizio è Cassazione. E allora via al mare. Due mesi con la mia nipotina, non potrei sperare di meglio.
Vado avanti io, ed è subito evidente che non si tratta di un viaggio, ma di un esodo. Passeggino con ruote grandi, nel giardino ci vogliono gli ammortizzatori; vaschetta per il bagno, moderna, di design e spacca schiena; una borsa piena di vestiti, non è nata in una grotta e poi anche lei ha le sue esigenze. Per mia figlia: olio d’oliva biologico; lo produce un amico santone, che controlla le olive una per una, ché durante l’allattamento si deve mangiare bene. Miele integrale, di agrumi, pieno di antiossidanti. E creme da usare prima, durante e dopo il sole; barattoli e tubetti di ogni forma e dimensione. «Non andiamo mica nel deserto!», sbotto mentre carico la macchina. Già, ma se Biancuzza ha bisogno di questo? E di questo? E di quest’altro? «Al resto ci pensiamo noi», mi rassicurano i neogenitori. C’è anche un resto? mi domando incredula.
Aspetto che faccia notte sul ponte. La mia prima estate da nonna, l’emozione mi toglie il sonno. E poi la rotta del traghetto non passa per il Tirreno, ma per la memoria. Ho un ricordo nitido degli anni della giovinezza, quando portavo in Sicilia i miei bambini. Ora sono grandi, viaggiano per i fatti loro, in aereo e senza bagagli, a quelli ci penso sempre io. Poi Scirocco, il mio cane. Quest’anno non lo vedo con gli occhi, ma con il cuore. Ansima sempre per il caldo, abbaia ancora all’aria densa di sale e di avventura. La casa mi aspetta solida. Con Biancuzza siamo a quattro generazioni, ne hanno di cose da raccontare le mura bianche e sbruzzolose.
La battaglia per il controllo del territorio comincia fin dal primo giorno. I topi, piccoli, di campagna, nulla a che vedere con le zoccole romane, ma ugualmente sfrontati, hanno fatto la tana dentro la palma. Quella che se ne sta come un guerriero tra il cancello e il muro, sfidando la sua stessa natura, ché in uno spazio così risicato pare impossibile tanta imponenza. La famigliola di roditori si nutre di fichi. Ma tu guarda sti impudenti, quelli sono i fichi di mio padre! Lui se li contava ogni mattina in attesa che maturassero e, se ne mancava qualcuno, apriti cielo! «Li ammazzo». Una mia amica etologa me lo sconsiglia: «Guarda, meglio questi, i tuoi topi personali; altrimenti ne verranno altri e non sai chi ti metti in casa». Ricorro allo sterminatore.
Nei giorni che seguono, ricevo laconiche e ripetute comunicazioni di servizio di mia figlia, chissà perché non la indico mai con il suo nome di battesimo? «Ma’, questa la lista delle medicine da comprare…»; «Ma’ a che ci sei compra dei giochi». “A che ci sei” è l’unico cedimento al dialetto e al garbo, ma sono le nuove generazioni, asciutte e senza fronzoli, e con un forte imprinting, loro malgrado.
Giovedì mattina, dopo aver disinfettato le stanze, riempito il frigo, innaffiato le piante, corro all’aeroporto, non sto nella pelle. All’ingresso dell’autostrada, una telefonata: «Ma’, non ci fanno salire sull’aereo, stiamo cercando di risolvere il problema». Me ne torno indietro, delusa che quasi piango. La nostalgia è un chiodo nel petto. Il solerte stewart di un volo Roma/Palermo l’ha ripetuto in tre lingue «Senza documenti la bimba non sale a bordo». E così, nel luglio più caldo del secolo, Bianca viene messa in posa, tenuta dritta tra le mani della sua mamma. Nella la foto della carta d’identità, la sua prima, ha un’espressione stralunata, le guance pallide e gonfie, che pare un criceto. Anche così concia mi pare bellissima. Perdono il volo e arrivano il giorno dopo: padre, madre e picciridda. Nella sala d’attesa mi consuma il desiderio di respirare quel profumo di cucciola che certi giorni, se la poppata è stata abbondante, ha il sentore del formaggino. Me ne sto dietro le porte, sbirciando al di là ogni volta che si aprono. C’è il consueto muro di siciliani gesticolanti, che aspettano il ritorno dei parenti emigrati; la commozione mia si somma a quella loro, prende corpo una vibrazione che assomiglia all’OM dei monaci tibetani. Finalmente intravedo Biancuzza tra le braccia del padre; sono entrambi di spalle e aspettano i bagagli al nastro. Non resisto e, violando le disposizioni di mia figlia che vietano di metterle fretta, mando un messaggio che non prevede repliche: «Passatemi la bambina». La picciridda compare come un arcobaleno dopo mesi di pioggia. L’urlo mi sale dal profondo «Figghia, figghiuzza mia!» al sud si usa così. Mi trattiene il pudore maturato nel Continente e ingoio a vuoto. Sotto lo sguardo di un severo finanziere, la stringo forte, stilla da ogni mio poro una sorta di sudore di nonna. Biancuzza comincia a urlare. Intorno a me un nugolo di donne, che si specchiano nel mio sgomento. «Non l’ha riconosciuta!». «Avi assai can nun la vidi?». «Pure me’ niputi, a stissa precisa». Sono bastati sette giorni per dimenticarmi. E poi dicono che i bambini capiscono l’amore!
Le formiche, in mia assenza, hanno superato la soglia della cucina e marciano agguerrite verso il frigo. Non c’è tempo per il dialogo, mi dico e chiamo un secondo sterminatore, che arriva dopo molte telefonate. Pare il signore degli anelli. Sulla schiena il bombolone della pozione magica, in mano un aspersorio che manco il vescovo al fistino di Santa Rosalia. «Non comincio se non ve ne andate, nzà mà la picciridda, sempre un veleno è. Tornate tra tre ore». Sono stata una madre ansiosa, ora sono una nonna ansiosa. Meglio dormire fuori, e prenoto un albergo, il più carino della zona. Biancuzza sembra non gradire. La camera non è abbastanza; lei, così piccola, esige spazio infinito e orizzonte cangiante. Così vaghiamo per il paese con lo scirocco che soffia impetuoso come la bora, feroce come un tornado. Alla sera, nel letto, le urla si fanno più alte. Biancuzza ne vuole conto e soddisfazione di quella stanza chiusa per via dell’aria condizionata e degli insetti che affollano il rampicante sul balcone. Ce ne torniamo a casa, seguite dagli sguardi di riprovazione delle mamme tedesche, i loro figli dormono già.
Le formiche sono sparite, ora le vacanze possono cominciare. Ci svegliano però al mattino presto le urla dei nostri vicini. Lei polacca, lui trapanese trascorrono i mesi estivi a lanciarsi improperi, rinfacciandosi ogni sorta di inadeguatezza. Quest’anno non la passeranno liscia. Attacco la musica, un roboante tango, ché a Biancuzza quello piace, e poi rock duro, a palla. Quando esaurisco i CD, comincio io a snocciolare canzoncine, filastrocche, serenate, tiritere. La guerra è guerra! La coppia litigiosa tace sopraffatta. Scopro poi che la bambina ama alcune parole e ne detesta altre. “Petaso” la fa sorridere. “Petaso de mi vida” suscita risate larghe, di gola; “Nicuzza” induce sonno, insieme alla ninna nanna dei Tinturia, ché io all’imprinting siciliano ci tengo. Le due teste di moro che da anni vegliano sulla mia casa, sono ora gli interlocutori preferiti della mia nipotina. Ma ho dovuto cambiare loro il nome. Hamed e Aishia le suonavano strani. Pompelmo e Mela Cotogna molto meglio. Dopo una settimana, il mio orizzonte si è ampliato, il vocabolario è più ricco, il cuore alleggerito. E naturalmente non finisce qui.
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