Il commento di Lidia Ravera

La prima sensazione, mentre leggevo i racconti delle lettrici che hanno partecipato al gioco di scrivere di sé, la posso riassumere così: ma quanto sono brave! Lo so, è una reazione materna, di quelle che farebbero inarcare il sopracciglio ai più paludati e accademici fra i miei colleghi. Ma io la rivendico, rivendico quella piccola gioia da vecchia artigiana: come in una bottega rinascimentale, coi potenti mezzi di Donna Moderna, ho potuto raccontare a tante aspiranti artigiane come si modella un racconto autobiografico. Pochi mesi dopo, ho potuto guardarli uno per uno, i racconti arrivati in redazione: oggetti costruiti con cura. Sinceri, spesso ironici e sempre intelligenti, mi scivolavano davanti rapidi con una felicità di scrittura che non mi aspettavo: nessuna lagna e nessun compiacimento. Niente di sciatto o scontato.

Il tema dei racconti: I love my age

Il titolo I love my age invitava, implicitamente, a fare i conti con il tempo. E i conti con il tempo sono stati fatti: a 80 anni come a 50 e perfino a 30. Su tutte, anche sulle più giovani, infatti, incombe il peso di un destino imposto di cui non riusciamo a liberarci: le femmine della specie devono essere giovani&belle, e restarlo per tutta la vita. La danza di liberazione dagli stereotipi ci coinvolge tutte, a tutte rende la vita più leggera. A cominciare dalle tre premiate. Per me a pari merito.

A cominciare da Angela Russo, autrice di Avere 80 anni e (non) sentirli, che scrive come un angelo (sarei curiosa di sapere che cosa faceva prima della pensione). Seconda Monica Padovani, autrice di Morta un 4 giugno, che è molto più indietro con gli anni ma è ben decisa a «sapere qualcosa delle ultime righe», e intanto racconta di una morte sfiorata in una guerra lontana. Terza Isabella Natale, che in Io voglio ci invita a uscire nude per strada «belle, brutte, bambine e puttane», a curarci le ferite con «fatalismo, realismo, tisane e vino». Ma soprattutto a consumare «a piccole dosi quello che ci fa star bene e via tutto il resto». Dove “quello che ci fa star bene” è, certamente, scrivere. A tutte le età. E contro tutti i pregiudizi sull’età

Avere 80 anni e (non) sentirli, di Angela Russo

Mi chiamo Angela e ho 80 anni compiuti da poco. Nata al Sud, vivo a Firenze da quaranta anni. Ho due figli, una nipote, ho avuto due mariti. Giorni fa ero in visita al Battistero, ogni tanto rispolvero le meraviglie di questa città, e, alla biglietteria, mi hanno avvisato che i mosaici della cupola erano coperti, in restauro. Ho chiesto quando i restauri sarebbero terminati. Due anni, forse tre, magari cinque. Ho avvertito una strana sensazione, mai avvertita prima. Probabilmente non vedrò più questi mosaici. La vita ha termine per chiunque, ma la mia ha una fine molto prossima, certa. Come se su un grande palcoscenico illuminato, a fine spettacolo, si fosse spento un riflettore. Quello spazio, lì sotto, non lo rivedrò più.

È stata la prima esperienza diretta, non mediata, della prossima fine della mia vita. E la risposta non è stata il dolore, non il rimpianto, non la paura. È una sensazione nuova, una nuova esperienza. Molto naturale. Come avere fame o sonno senza avvertirne i sintomi. È strana questa mia età, non mi porta sconforto, solo fastidio per il corpo che avverte le sue stanchezze e usure. Ci sento meno, ci vedo meno, cado frequentemente, complice la pavimentazione irregolare delle vie cittadine. Trovo sempre sollecita assistenza nel prossimo, la cultura contadina che tributa riguardo all’anziano è ancora viva nel nostro Paese. E questo, a livello sociale, avendo abbandonato molte altre identità, mi riserva un ruolo. Se avessi avuto questi ottanta anni quando ne avevo quaranta, avrei vissuto in altro modo.

È un po’ di tempo che dentro di me avverto uno spazio nuovo, molto fresco e ampio. Il mondo mi appare. Vivo su un Pianeta (nome che si pensa possa esaurire il mistero e l’incanto di questa realtà) che gira su se stesso, in uno spazio immenso. Non è un pensiero, è un’esperienza che genera meraviglia, stupore, e che relativizza tutto quello che avevo scambiato per mia unica vita, sinora. Ho comprato libri sulla storia di questa mia Madre Terra, ne ho seguito le evoluzioni, le età, ho fantasticato cercando di raffigurarmi gli scenari, sulle prime, incredibili, misteriose forme di vita.

Ho “visto” il sole sulla mia mano, ho “visto” l’acqua scorrere, “vedo” il mare, le rocce, “vedo” il mondo che si dispiega sotto i miei occhi maestoso, seducente, ampissimo. E, contemporaneamente, vedo tutto quello che ho scambiato per mia unica, reale vita, emozioni, attaccamenti, possedimenti, perdere valore e realtà. Quello che ho sentito “mio” comincia a perdere quella valenza. Come qualcosa che è stato incatenato a un palo per sicurezza ma quel palo non c’ è più. Sono tutte sensazioni nuove, mai avvertite e che non hanno molte parole per esprimersi. Provo una grande tenerezza per questa umanità, a cui appartengo, fragile, che persa nell’ universo, ne annota le leggi, ne sonda i misteri. E, in assenza di risposte certe, si è inventata la sua vita. È stato necessario. Non è spiacevole la vecchiaia. È liberatoria. Generosa. Mi regala mondi.

Alle volte ho delle strane sensazioni. Mi capitano sempre più spesso. Soprattutto in giornate in cui la luce è calda e il silenzio la riempie. Una luce simile al ricordo. E allora affiorano non immagini ma un tempo intero, reale, un tempo passato della mia vita che porta il sentore, non le immagini, solo il sentore della mia vita passata. Un tempo che si allinea, reale, con quello che sto vivendo, e convivono, in pace, per poco, esaltandosi a vicenda. Un tempo presta all’altro il sapore di un’emozione, senza che l’uno sovrasti l’altro. E allora sono la bambina di quel giorno profumato della mia infanzia e, insieme, la persona di oggi. Penso che il mio tempo viva intero, dall’inizio alla fine, e io, con i miei limitati strumenti di percezione, lo avverta così segmentato. Alle volte sento ancora vivi, presenti, per lo stesso motivo, camminando per le strade di Firenze, Dante, Michelangelo…

Non è possibile rendere a parole, in un ragionamento che poggia sulla nostra logica, la sensazione che anima queste mie esperienze che hanno il carattere assoluto della certezza, senza essere un atto di fede. Una certezza che poggia su un’esperienza reale. Come dover asserire senza trovare parole o ragionamento logico che la luce è, insieme, un’onda e una particella. Forse, se fosse possibile, con la sintesi assoluta di una formula matematica, riuscirei a esprimere meglio tutto questo. Certo, lasciare le persone che amo mi addolora. E allora mi pongo a una certa distanza, le vedo vivere, le saluto così, consegnandole alla vita. Il dolore diventa una malinconia sopportabile.

Spesso penso a quello che sarà dopo di me. Rimarranno le mie ceneri su questo Pianeta per un tempo lunghissimo, forse miliardi di altri anni. Ci saranno cambiamenti enormi, ci saranno storie, civiltà che si avvicenderanno e questo mio tempo sarà vissuto forse come preistoria dal tempo che verrà. Sono andata via da casa a diciotto anni, mi sono trasferita a Roma per l’università. Non sono più rientrata. La vita mi ha portato lontano dal mio luogo di nascita per contingenze varie, ma anche per una precisa volontà. Quello spazio era stretto, le esperienze passate non del tutto felici. Ho pensato, così, fosse naturale eleggere il mio domicilio futuro in terra di Toscana, luogo che ho amato intensamente nel corso della mia vita. E ho cominciato a visitare eventuali dimore. Alla fine, con una capriola emotiva inspiegabile e insperata, ho trovato pace decidendo di tornare nella mia terra, tra la mia gente, è lì che riposeranno le mie ceneri. Prende forma un desiderio: vorrei spogliarmi di me stessa, abbandonare tutto, ricordi, forme, uscire dalla mia vita nuda, come quando sono arrivata. E con un sorriso, concludere, così, questo mio viaggio.

Morta un 4 giugno, di Monica Padovani

Sfoglio un libro, mentre qualche pagina prende vita mossa da folate irriverenti. Mi sento incoraggiata in quella voglia urgente di sapere qualcosa delle ultime righe. Ogni volta è così. Poi la fantasia si libera immaginando la storia che ancora non ha un inizio ma già una fine.

Ho costruito la mia vita così. Non che sia già a conoscenza della fine, ma la penso significativa a chiusura di qualcosa che ne è valsa la pena. Guardo gli anziani con invidia, mi sembrano tutti dei saggi, esperti di ciò che ancora pienamente mi sfugge.

In realtà una volta ho vissuto un ultimo giorno, ultimi istanti. Ero in un bagno, seduta a terra, con me alcune donne. Ore infinite ritmate da rumori assordanti. Da quattro mesi ero di ritorno in Africa. Una terra che aveva abitato i miei sogni d’adolescente, da giovane aveva dato senso a scelte importanti e ora mi mostrava un suo volto tridimensionale.

Suoni di una mitragliatrice, silenzio e spari in un ritmo imprevedibile. Ancora silenzio, irreale, di attesa. Un suono diverso. Chi può essere che bussa alla porta? Amici o nemici?

Donne in fuga, con grappoli di bambini. Donne forti che ti guardano negli occhi, chiedendo un tetto, un rifugio, per loro e per i loro figli. La nostra casa non è più sicura della loro, ma hanno già camminato e in altri quartieri le hanno riconosciute e scacciate, donne dei ribelli.

Così la nostra famiglia cresce. Nell’attesa si parla piano, si dorme come si può, si gioca per intrattenere i più piccoli, si pulisce la casa, si scambiano confidenze, paure, si ascolta la guerra fuori, si cercano informazioni. Qualche notizia ci raggiunge per radio, altre attraverso qualche fortunata chiamata al cellulare, si aspetta.

Forse è trascorsa una settimana, o qualche giorno soltanto, ma il finale è arrivato con gran fracasso. Era verso mezzogiorno, come al solito rumori di guerra, triste colonna sonora. Improvvisi due spari e pallottole che entrano, non invitate, in una traiettoria ad altezza d’uomo attraversando la porta, e si conficcano nel muro opposto.

Tutti a terra, strisciando nel bagno, immaginato più sicuro. Si scatena il finimondo. Un bombardamento continuo sul quartiere, roccaforte dei ribelli. Tutto trema e sembra crollare, tranne la certezza di rendere l’anima a Dio fra qualche attimo. Qualcuno prega, ci provo, ma dopo poco non riesco più. Il neonato piange disperato, da qualche ora non mangia, la mamma era fuori casa e ora chissà quando e se tornerà.

4 giugno 2001: con strana serena lucidità constato che questa data sarà sulla mia tomba accanto a una crocetta. Veramente non sono assolutamente pronta! Poi un silenzio irreale accompagnato dal buio della notte. Quel 4 giugno non sarà la mia data. Alle prime luci dell’alba, un giro intorno alla casa sulle nostre gambe conferma una certezza, quella di essere vive. Le donne dei ribelli, con tristezza e gratitudine, ci lasciano, per scappare ancora. E io vorrei morire in un letto, un sabato mattina, di morte naturale.

Io voglio, di Isabella Natale

Non sono bella, sono soltanto erotica. Percorro le strade del centro e mi sento una piuma. Non sono bella, sono soltanto erotica. Me lo ripeto anche se nessun uomo che mi passa a fianco posa lo sguardo su di me. Sì, l’ho rubata ’sta frase, ma rubare – come diceva qualcuno (e rubo di nuovo) – non è copiare. Rubare è arte. Il mio seno è morbido e i capezzoli ancora rosei, vellutati come petali. Chi deve saperlo lo sa. E lo sa perché decido io. Finalmente. “Alla nostra età, siamo vecchie ormai”. Poi ci son quelli “le sessantenni di oggi sono le quarantenni di ieri”. La me quarantenne non aveva la pelle delle braccia plissettata, aveva il vitino stretto e le cosce toniche. Sono le uniche cose che rimpiango. Detesto il decadimento del corpo, ma non mi sfinirò in palestra, non mi riempirò di botox. Sono fortunata, sono snella e sopravvissuta. Una bomba a orologeria.

«A piccole dosi quello che ci fa stare bene e via tutto il resto». Ce lo siamo dette io e la mia me più fragile nelle notti nere mentre tamponavamo ferite con unguenti di fatalismo, realismo, tisane e vino. Ho deciso che sarò una vecchia ribelle e rompicoglioni, e non mi verrà difficile perché ci sono nata. Tolti gli strati tossici, faccio le pulizie d’autunno. Ha lati belli l’autunno: rossi incendiari e tramonti viola e arancio, pioggia che lava, vendemmie e allegria. Gli alberi si spogliano e io anche. Taglio via quelli che mentre splendi affondano la lama. “Ormai alla nostra età, ma dai, siamo seri”. Dovremmo uscire nude per strada a cantare ballando il diritto di amare, di essere felici, belle, brutte, bambine e puttane. Che sfilata meravigliosa: corpi abbondanti o secchi, seni come borracce o tondi come meloni di Mantova, bocche rifatte e rughe impietose, chiome fulve o grigie. No alle streghe che bruciano streghe con sguardi e parole al veleno. Chi dice «Dove vai alla tua età vestita così» meriterebbe una pena esemplare. Per il razzismo di cui nessuno parla.

Voglio essere Irina Palm al tè delle cinque, voglio essere Francesca dei Ponti di Madison County, voglio essere la signora Morli, voglio essere Judy Dench in Chocolat, voglio essere Lea di Cheri, voglio essere Jo March. Voglio. È una parola che spodesta i troppi “posso?” detti. È una carezza, un budino alla vaniglia, una coperta calda in inverno quando fuori tira vento. Il venerdì lascio la donna che nessuno guarda, esco dalla crisalide e volo su un altro pianeta. Con Giacomo. Anche lui è nell’autunno, anche lui ha l’anima in fiamme. Atterriamo su un letto nuvola e decolliamo. Giacomo con la sua calvizie e la passione, io con la mia leggerezza da sopravvissuta e la lingua di Sherazade che inganna il boia del tempo.

La vita mi ha lasciato segni sulla schiena ma mi ha donato l’ironia, la forza e l’allegria. E un amore erotico, autunnale. I doni della vita sono in prestito, questo regalo del mio tempo supplementare ha per sé solo il venerdì. A trent’anni avrei scalciato e morso il freno. Il venerdì volo come una farfalla, splendo come un diamante, mi apro come un fiore. Le fatiche di Ercole, le avventure di Ulisse, il cuore sbranato e sputato via. Voglio l’amore quieto con Mario e quello di miele e Habanero con Giacomo, mi concedo il lusso di rubare parole, momenti, piacere, cioccolato e poesia. Voglio essere la bambina che non sono stata mai, la donna che sceglie, la femmina. Sostengo in silenzio il peso della coscienza. Le donne hanno spalle robuste. Sono etica, non moralista. Ho la forza di Irina Palm e la veemenza di Jo March, l’inquietudine della signora Morli e il dolore di Lea, la libertà di Judy/Armande e il cuore scrigno di Francesca. Su tutte, inutile dirlo, mi suona dentro la voce di Alda: Non sono bella, sono soltanto erotica.