Impossibile negarlo: sentire la sua voce all’altro capo del telefono mi fa un certo effetto. Perché è la stessa che fino a poco fa mi stava raccontando il silenzio figlio del disastro di Rigopiano. E che nel settembre dello scorso anno mi teletrasportava nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, dove fu ritrovato il corpo di Elisa Claps. E prima ancora, nel 2021, mi portava sotto le acque dell’Isola del Giglio tra i relitti della Costa Concordia. Nel 2017 avevo sedici anni, quasi nessuno – io compresa – conosceva la parola “podcast”, ma quella voce stava già raccontando, davanti a un microfono, la storia dei Diavoli della Bassa Modenese. Insomma, non ho mai parlato con Pablo Trincia prima d’ora, ma mi sembra d’averlo già incontrato. Forse perché podcast dopo podcast, negli ultimi anni, la sua voce mi è diventata familiare, abituata com’è a uscire dallo speaker del mio iPhone ogni qualvolta la mia testa chiede il time out. Questa volta, però, è diverso: la posso ascoltare in tempo reale. La stessa di sempre, ma differente. Non è preregistrata, non ha uno script da seguire. E non racconta (solo) di crimini, incidenti, sciagure. Sta raccontando se stessa. Come sempre, abile cleptomane di tutta la mia attenzione.

Come nascono le storie, l’ultimo libro di Pablo Trincia

È la stessa voce che ho immaginato leggendo Come nascono le storie. Il mio viaggio nell’arte di raccontare (Roi Edizioni), l’ultimo libro di Pablo Trincia. Memoir e manuale in cui l’autore condivide tutto ciò che sa del suo lavoro e del suo passato. È un lascito double face, il suo. Scrivendo si rivolge ora a se stesso, a quel bambino di via Ampère a Milano «inspiegabilmente» diventato uno storyteller di successo, ora a noi lettori, guidati con consigli pratici nel dietro le quinte del suo processo creativo e narrativo. Il risultato è un libro matrioska di storie che, tra vecchi temi di italiano, pomeriggi in edicola con la nonna italiana Velia, lettere spedite a nonno Ehsan in Iran, una laurea in Lingue e Letterature Africane e un nome lungo quattro parole (queste: Trincia Pablo Pirnz Enrico), «scava nel passato per trovare il futuro».

Il dito del destino – Voci dal passato

Nel tuo libro Come nascono le storie scrivi che per te era arrivato il momento di “girare l’obiettivo di centottanta gradi e puntartelo addosso”. Come mai?

«Perché l’avrei dovuto fare prima o poi, nonostante il timore di rivangare vecchi traumi. Nel libro volevo raccontare come narro le storie, sì, ma con un fil rouge che evitasse l’effetto manuale. Quindi mi sono detto: forse è arrivato il momento di indagare su di me. Così ho studiato e finalmente compreso l’intera storia dei miei nonni materni (incarcerati e torturati dal regime islamico in Iran: il nonno Ehsan Tabari, intellettuale e filosofo, è stato uno dei leader del partito comunista iraniano, nonché amico del poeta Neruda, da cui Pablo ha preso il nome, ndr). Non ha senso raccontare le vite degli altri senza conoscere la propria».

Ma il libro nasce anche da qualcos’altro, da una specie di enigma…

«Sì, da quella che chiamano sindrome dell’impostore. Sono sempre stato lo studente poco performante, che non aveva alcun particolare talento. Come mai ora, all’improvviso, mi ritrovo a scrivere? Non mi ero mai dato una risposta, non me lo spiegavo. Ero curioso di capire da dove venisse questa vocazione di cui non mi ero mai accorto: perché da ragazzo senza talento sono diventato un narratore?».

Lo scopri scrivendo, riaprendo dopo tanti anni diversi cassetti del passato. Questo scavo in te stesso cambierà il modo in cui d’ora in avanti scaverei nelle storie degli altri?

«Sì, mi aiuterà a cercare sempre di più l’elemento destino, le “pepite d’oro del futuro” che si trovano nel passato, cioè tutte quelle connessioni misteriose, curiose, strane. Ma soprattutto cercherò di guardare il passato degli altri con una lente sempre più psicologica, cosa che prima facevo ma forse senza rendermene pienamente conto».

Per ricostruire la tua storia hai anche intervistato i tuoi genitori Asin, iraniana, e Michele, italiano, a cui il libro è dedicato. Quali sono le cose più belle, insolite o rivelatorie che hai scoperto su di loro?

«Sono quelle che non potevo ricordare. Per esempio, non conoscevo i particolari del loro primo incontro sugli scalini dell’università. Parlando con mia mamma ho scoperto molto anche degli anni bui dopo il trasloco da Lipsia (dove Pablo è nato nel 1977, nell’allora Germania Est, ndr) a Milano. Quante cose che non sapevo, le ho lette solo dopo 40 anni nei diari dei miei genitori! Ho scoperto quanto mio padre aiutasse mia mamma, impegnata nella campagna per la liberazione di mio nonno in Iran. Mi ha fatto bene sapere quanto fossero uniti in quel periodo molto difficile».

Emozioni loro – L’uomo mandato a raccontare storie

Autobiografico, sì, ma Come nascono le storie è anche un concentrato di consigli pratici per raccontare al meglio una storia. Anzi, per vederla ancora prima che lo diventi. Come sintetizzeresti il tuo metodo di lavoro?

«Con tre macro step: sguardo, fonti e scrittura. Innanzitutto bisogna vedere la storia, capirla nella sua unicità ma anche trovarne gli elementi universali. Poi c’è la ricerca delle fonti, di tutto ciò che tocca la storia: persone, documenti, audio, video… Le storie sono come pianeti attorno ai quali gravitano tanti satelliti: noi dobbiamo andare a prendere proprio quei frammenti di materia, elementi che in un modo o nell’altro hanno riguardato quella storia. E poi c’è la scrittura, che io chiamo anche “cucina” perché consiste nell’unire gli ingredienti trovati in precedenza».

Quali qualità non devono mancare in un buon narratore?

«Ne basta una: la curiosità. Come scrivo nel libro, essere un narratore significa mettere un “c’era una volta” davanti a tutto quello che ti si presenta lungo il cammino. Saper immaginare l’arco narrativo di qualsiasi storia (compresa la tua) come un film che si sviluppa su uno schermo. Ecco, se tu sai usare questa sorta di filtro cinematografico, e se hai un approccio curioso e interessato, hai già fatto metà del lavoro. Poi però devi aggiungerci anche l’empatia. Devi entrare in connessione non solo con chi ha sofferto, con chi ha subito una tragedia o un’ingiustizia, ma in generale con chi si racconta a te. Devi entrare nella sua passione, cercare di coglierla e capirla, devi appassionarti anche tu, vivere il suo entusiasmo, quello che gli piace e quello che non gli piace. Entrare in empatia significa sintonizzarsi sulle frequenze di un’altra persona, qualsiasi cosa ti stia raccontando e in qualunque contesto lo stia facendo».

Dove nessuno vede – Il caso podcast

Magari di fronte a un microfono e con un paio di cuffie sulle orecchie. Con Veleno (il primo podcast di Trincia, scritto nel 2017 con Alessia Rafanelli, sul caso dei cosiddetti Diavoli della Bassa Modenese) tanti di noi italiani hanno conosciuto i podcast. La tua è stata una grande intuizione. Che cosa, in quel modo nuovo di raccontare le storie, ti ha subito stregato?

«Il fatto che per la prima volta riuscissi a utilizzare l’immaginazione, un senso che era stato spento. Nella società dei video, dei film, del cinema, dei documentari, di Instagram e di TikTok, deleghiamo l’immaginazione ad altri: registi, autori, creators… Abbiamo smesso di emozionarci usando la nostra fantasia. I podcast invece danno la possibilità di accendere un’immaginazione che è solo nostra. Di avere le mani libere, gli occhi liberi, la mente libera. E lasciare che generi immagini pescando dai ricordi. Quando usi l’immaginazione, usi la memoria: ricomponi cose che hai visto, sentito, provato. Lo trovo un meccanismo intimo, potente e profondo, che lega moltissimo autore e ascoltatore. E non è una questione personale, strega proprio tutti. Tante persone mi hanno confidato quanto sia bello poter creare il proprio film, che è più bello di quello che qualsiasi altro regista potrebbe mai fare».

Tu che hai portato i podcast in Italia e assistito alla loro traiettoria negli ultimi anni, cosa vedi ora nel panorama?

«Sicuramente mi aspettavo una maggior produzione di audio-serie simili alle mie, dopo Veleno. Sono scoppiati invece i talk (alcuni comunque molto belli), che ora vanno per la maggiore perché sono più facili e immediati, diciamo “cotto e mangiato”. Di audio-serie di qualità invece ce ne sono meno, perché richiedono tanto lavoro, rischio e impegno. Devi essere attentissimo alla scrittura e combattere con le mille distrazioni che ogni giorno e ogni minuto rischiano di portarti via l’ascoltatore. L’obiettivo è riuscire a “sequestrarlo”, incatenarlo a te e al tuo racconto. L’assenza delle immagini rende il podcast molto potente, ma richiede anche una dose di lavoro spaventosa. A ogni modo ricordo che quando è uscito Veleno, sette anni fa, spiegavo cosa fosse un podcast e tutti mi guardavano straniti. Adesso invece sempre più persone li ascoltano, di tutte le generazioni e anche di tutte le zone geografiche. Fino a qualche anno fa un quarto di chi ascoltava i podcast era del Nord Italia. Adesso invece, complice anche il fatto che le storie protagoniste sono locali (come quella di Elisa Claps o dell’hotel Rigopiano), il pubblico si allarga anche a quelle regioni in cui il podcast prima non si ascoltava praticamente mai.».

Che ruolo hanno, oggi, i narratori come te?

«Creare un mondo in cui evadere, nel quale rifugiarsi per qualche ora o per qualche giorno, per allontanarsi dalla quotidianità. Personalmente, cerco sempre di regalare esperienze. Non ti racconto solo cos’è successo a Rigopiano il 18 gennaio 2017, io sono lì per fartelo vivere. Attivando i tuoi sensi, la tua immaginazione, tutto il tuo campionario di emozioni. Ti devo far sentire il freddo. E l’angoscia. Dunque non è più solo un racconto, ma diventa un’esperienza da vivere. Ti ricordi La storia infinita? Bastiano apre il libro e ne viene risucchiato; quando esce, si sente stordito. Ecco, io cerco di ricreare quell’effetto che rapisce, cattura, trascina. Poi ovviamente il racconto deve anche dare degli elementi di riflessione, un punto di vista diverso che ti arricchisca, che ti faccia capire che non bisogna generalizzare mai e contestualizzare sempre. Quindi riassumendo: offrire un mondo parallelo in cui rifugiarsi, far vivere un’esperienza e offrire una prospettiva».

Crash – La storia dell’impatto del true crime

Molti dei tuoi podcast parlano di crimini, incidenti, disgrazie e crac. Nel tuo libro scrivi: “Il grande vantaggio del true crime è che dà a noi autori la possibilità di fare un viaggio più profondo, e di osservare la società come sul vetrino di un microscopio”. Che valore hanno le storie “brutte”?

«Ci aiutano a capire chi siamo e come reagiamo. I drammi ci mostrano come si comportano gli esseri umani di fronte a un omicidio, a un terremoto, a un naufragio, a qualsiasi cosa sia difficile, traumatica, spaventosa. Rompono la crosta dell’apparenza e ci fanno vedere i contrasti, cioè chi siamo veramente. Permettono di allargare lo sguardo e individuare pattern comportamentali, quelli di tutti i giorni, quelli che rendono universale una storia specifica».

A fare la differenza nel successo di un podcast e/o del suo autore non è però solo il cosa, ma anche il come. La sensibilità con cui si maneggiano le vite degli altri, il modo in cui si parla. Sempre nel libro dici che il cinquanta percento del successo di un podcast è determinato da come si usa la voce.

«Quello strumento antico come l’umanità, che si può allenare partendo però da una premessa: non devi avere timore del microfono. Più che guardare le parole sul copione, devi visualizzare ciò che stai raccontando: solo così suonerai naturale e spontaneo. La narrazione è l’arte dell’utilizzo dei silenzi, quindi con l’esperienza impari poi a decelerare».

E poi il presente – Il dono dell’obliquità

Nel tuo libro usi una parola che mi ha colpito, e cioè “obliquo”. Ai lettori dici: siate obliqui, cercate sempre una strada alternativa. Un’immagine geometrica che rende bene il suggerimento.

«Sì, è il “dono dell’obliquità” e ne sono convinto. Mi piacciono le sfide, non perché io debba dimostrare qualcosa a qualcuno, ma perché mi piace l’idea di darmi dei piccoli obiettivi, cercare un angolo particolare in cui posizionarmi per iniziare a raccontare. Obliquo è tutto ciò che arriva in modo inaspettato, che non è scontato ma originale, che non segue un tracciato già percorso da altri».

Il tuo libro si apre con un’affermazione che poi ne diventa il fil rouge: “Se scavi nel passato trovi il futuro”. E se scavi nel presente, invece, cosa trovi?

«Mi domando se esista, il presente. O forse è solo un intermezzo impercettibile tra passato e futuro? Non c’è mai un momento in cui il tapis roulant del tempo si ferma, siamo sempre a cavallo di due mondi. Io comunque ho una regola: aspettare che il presente diventi passato per poterlo capire. Non comprendi mai ciò che accade mentre accade, solo quando fai scolorire il presente ti accorgi delle sue sfumature. Nel presente ci abito e basta, poi però quando esco di casa per lavorare vado nel passato».

Mi sono sempre piaciute le risposte oblique. Ancor più se hanno la voce di Pablo Trincia.

Le novità firmate Trincia da non perdere

Gli ultimi progetti di Pablo Trincia, da (ri)leggere, ri(ascoltare), ri(guardare) o segnare in agenda.

IL PODCAST Scritto da Pablo Trincia con Debora Campanella, E poi il silenzio – Il disastro di Rigopiano racconta in 8 episodi la valanga che il 18 gennaio 2017 travolse l’hotel Rigopiano a Farindola, in Abruzzo, radendolo al suolo e uccidendo 29 delle 40 persone intrappolate all’interno per ore tra neve e detriti.

L’INCONTRO Pablo Trincia presenta il suo ultimo libro Come nascono le storie. Il mio viaggio nell’arte di raccontare (ROI Edizioni) a Bookcity Milano. Appuntamento sabato 16 novembre, alle 19, al Teatro Pime.

LA DOCUSERIE Dopo il successo del podcast, è in arrivo dal 20 novembre la docuserie E Poi il Silenzio – Il Disastro di Rigopiano, 5 episodi prodotti da Sky Italia e Sky Tg24 e realizzati in collaborazione con Chora Media. Raccontano la tragedia di Rigopiano attraverso impressionanti immagini fornite dai Vigili del Fuoco, dal Soccorso Alpino, dalla Guardia di Finanza e dalla Guardia Costiera, che documentano le complicatissime operazioni di salvataggio, grazie alle immagini che i familiari delle vittime e dei superstiti hanno voluto mettere a disposizione del lavoro di ricostruzione giornalistica, oltre alle immagini girate dagli stessi ospiti dell’hotel fino a qualche ora prima della valanga.