Non basta vederla combattere, serve sentirla parlare. Solo ascoltandola capisci che gli stereotipi che Irma Testa è riuscita a cancellare vanno oltre l’aver rubato la scena del pugilato ai maschi. Aver dimostrato che il patriarcato sportivo non ha difese davanti al talento delle ragazze è solo una parte del merito. L’altra ha a che fare con un’altra idea dura a morire, e cioè che per vincere nella boxe servano ferocia e una storia brutta da cui scappare. Nel suo modo di muoversi, nel tono della voce, nelle cose che dice non c’è traccia di aggressività o di dolori con cui fare i conti: c’è più l’idea di una donna che sul ring ha trovato se stessa e il suo posto nel mondo.
Irma Testa: l’amore per il pugilato
«Avevo 12 anni, ero una bimba mingherlina e senza freni. Siccome mia sorella faceva pugilato, volevo farlo anche io. Lì, nella palestra di torre annunziata, c’era il maestro Lucio Zurlo che tante volte mi aveva detto di provare, come faceva con tutti i ragazzini che giocavano con me per strada. Ho cominciato così: in qualche modo era il mio destino». Oggi Irma di anni ne ha 26 ed è una delle pugili più forti al mondo: bronzo ai giochi di Tokyo, 2 volte campionessa europea e, a marzo 2023, campionessa mondiale. È stata la prima italiana a qualificarsi nel suo sport per un’olimpiade, Rio 2016, e ora, a Parigi 2024, torna per la terza volta con l’ambizione di lasciare il segno.
Cosa le ha fatto amare il pugilato?
«La palestra era un posto pieno di regole, che però per me erano facili da rispettare. Entravo frenetica e uscivo con addosso una calma sconosciuta. La felicità che vivevo allora non l’ho mai più avuta, neppure oggi che sono tranquilla e non ho preoccupazioni, né per me né per la mia famiglia».
La storia del pugile che cerca riscatto con lei non regge?
«No. Anche quella è uno stereotipo: io me ne sono andata da Torre Annunziata perché volevo diventare qualcuno, non per fuggire dalla mia vita. Amo follemente il mio quartiere e la mia gente, che sa essere felice nonostante la criminalità».
Come ci si riesce?
«Con le regole, come in palestra. Te le insegnano già da piccoli: dove andare, con chi parlare, cosa fare in situazioni difficili. Impari a girarti dall’altra parte. È brutto, ma se vuoi sopravvivere non hai alternative».
Gli esordi
Ha descritto spesso la sua famiglia come una specie di matriarcato.
«Vero. Mia nonna Irma non vede, ma ha sempre fatto in modo che la sua parola fosse legge. Mia madre ha cresciuto 4 figli da sola. Le devo tutto».
Chi altro deve ringraziare?
«Lucio Zurlo, il mio primo maestro. È stato lui a dirmi che avrei potuto ambire a vincere un campionato italiano ed entrare nella Polizia di Stato. Mi ha insegnato a sognare, di questo gli sarò sempre debitrice. Ha allenato non i miei pugni, ma la mia mente».
Ha lasciato casa a 14 anni per andare ad allenarsi con la Nazionale ad Assisi. Cosa vuol dire vivere soli a quell’età?
«Il viaggio più lungo che avevo fatto era a Napoli in treno. All’inizio stare con altre ragazze, senza scuola e senza genitori, era un sogno. Poi è arrivata la mancanza di casa: chiamavo mia madre piangendo tutti i giorni. Finché, dopo un anno, ha cominciato ad allenarmi Emanuele Renzini, che è diventato come un padre. Ho capito che per stare bene dovevo cambiare, lasciando andare la frenesia che la mia città mi imponeva di avere».
La boxe femminile
Prima di lei la boxe femminile in Italia non esisteva.
«Eravamo poche. Ai Campionati italiani era già tanto fare due incontri . E la Federazione investiva tutto sui maschi: noi giravamo l’Europa con il pullmino, loro in aereo. Oggi, invece, abbiamo un budget più alto dei ragazzi e vinciamo più di loro. È il risultato di un intero movimento».
I Paesi che vietano il pugilato alle ragazze però sono ancora tanti. Perché una donna sul ring spaventa?
«Perché vive ancora l’idea del pugilato dei nostri nonni. Quella dei nasi rotti, dei morsi sulle orecchie, del sangue per terra. E questo è incompatibile con la visione delle donne in certi Paesi. Gli Emirati Arabi o il Qatar temo non si apriranno mai: anche lì le pugili ci sono, ma devono trasferirsi all’estero e combattono con il velo».
Ci sono ragazze che si avvicinano alla boxe come difesa personale.
«È sbagliato. Se dai un pugno in faccia a un uomo, è probabile che tu ti rompa la mano e lui non si faccia nulla. Ma il pugilato è un fantastico antistress!».
È anche uno strumento di empowerment?
«Tutto lo sport lo è. Il primo avversario da battere è sempre dentro di te. Vincere contro te stesso ti dà un grande potere».
Che avversario è, in questo, Irma Testa?
«Molto tosto. Ma conosco i miei punti deboli e i miei punti di forza e so usarli a mio vantaggio».
Irma Testa: oltre lo sport
Un punto debole?
«La famiglia. Quando parliamo di affetti, la Irma atleta un po’ si annulla, invece dovrebbe essere fredda come un cecchino, pensare solo alla carriera, essere egoista. La responsabilità che sento a volte rischia di frenarmi. Ma mia madre e i miei fratelli li amo follemente, vengono prima delle medaglie».
Di cosa è fatta la vita fuori dallo sport?
«Vivo con la mia compagna. Cerco di ritagliarmi momenti per viaggiare. Per il resto, la quotidianità ruota attorno allo sport: mangio da atleta, dormo da atleta, mi alleno da atleta».
Irma Testa: il coming out
Nel 2021, dopo il bronzo olimpico, ha fatto coming out. Come ha reagito la sua famiglia?
«Mia madre l’ha sempre saputo, per lei non è stato un problema. I miei fratelli, invece, hanno faticato: il più grande si è fatto un gran pianto. In casa di omosessualità non avevamo mai parlato, l’idea che due donne potessero amarsi era lontana dai nostri discorsi e per loro era quasi una vergogna. Come lo era stato per me, da bambina. Sono cresciuta giudicando le persone omosessuali perché nel mio quartiere era considerato qualcosa contro Dio e contro natura».
Vivere la propria omosessualità quando cresci così è difficile.
«Mia sorella mi ha detto cose irripetibili e per un mese non mi ha rivolto la parola. Poi, dopo un anno, ho scoperto che anche lei usciva con una ragazza e quelle cose me le aveva dette per proteggere se stessa».
E nello sport quanto è difficile fare coming out?
«Ancora molto. L’atleta è un modello di perfezione e, siccome l’omosessualità dai più è vista come una macchia, si fatica. Specie negli sport tradizionalmente maschili: il bomber lo disegni ancora con la velina, non con un altro bomber».
Olimpiadi 2024
Se a Parigi arriva una medaglia, a chi la dedica?
«Ogni mio successo è un lavoro di squadra, il merito è di tanti. Ma se arriva una medaglia, la dedico prima a me stessa. È la mia terza Olimpiade, vado là più serena. Voglio godermela. E se nel villaggio olimpico incontro qualche campione, cercherò di parlarci invece di arrossire come facevo a Rio…».