Juliette Binoche si muove agile tra i fornelli. Il vapore la affatica, andare in giardino a raccogliere le verdure migliori per il suo pot-au-feu la fa sudare. Ma non perde mai la grazia e, dopo essersi cambiata, entra in sala da pranzo come una regina: siede a tavola e si fa servire da un uomo che pende dalle sue labbra, in fatto di osservazioni culinarie e non solo.
Juliette Binoche, cuoca nel film Il gusto delle cose
La Juliette Binoche di Il gusto delle cose è la schiva quanto impeccabile Eugénie, cuoca dell’800 che lavora da 20 anni per il famoso gastronomo Dodin. Insieme i due creano piatti dai sapori sublimi e, con il passare del tempo, la sintonia in cucina si trasforma in una relazione sentimentale. Lei, però, non ha mai voluto sposarlo e così lui decide di fare qualcosa che non ha mai fatto prima… Nel film diretto da Tran Anh Hung, premiato per la miglior regia all’ultimo Festival di Cannes, la magnetica attrice francese, 60 anni, recita accanto all’ex compagno, nonché padre di sua figlia, Benoît Magimel nel ruolo di Dodin. Non succedeva da I figli del secolo, il film del 1999 che li ha fatti incontrare, ma la loro intimità naturale è senza dubbio il cuore della storia.
Intervista a Juliette Binoche
Come descriverebbe il suo personaggio, Eugénie?
«È una donna che vive dando tutta se stessa. I suoi genitori sono morti molto giovani, e questa è la parte oscura della sua vita, il motivo per cui si dedica tanto agli altri. È il suo modo di resistere, di allontanare la tragedia potenziale della morte».
L’idea del film è quella di trasmettere sapori e ricette da una generazione all’altra: sua madre le ha insegnato a cucinare?
«Mi ha dato molte indicazioni. Quando ero una giovane attrice e vivevo di pasta, ero fiera di saper fare la besciamella, per me era già alta cucina! Mia madre mi ha insegnato la cura nella scelta dei prodotti, li prendeva biologici già negli anni ’70».
Cosa le piace cucinare?
«Da ragazza preparavo solo dolci, perché mia madre non li faceva mai. Crescendo, mi sono spostata sul salato».
Perché, secondo lei, le persone sono così attratte dagli show culinari in tv?
«Perché viviamo in un mondo molto cerebrale, invece in cucina crei qualcosa con tue mani: è un modo per esprimere il tuo amore. Considerata anche la fatica che devi fare prima, dalla spesa alla preparazione! Non solo: la nostra epoca è fatta di quantità più che di qualità, e lo spreco eccessivo di cibo ne è la dimostrazione. Tornare in cucina, per me, significa in un certo senso tornare a riflettere sul senso della vita».
A proposito di ritorni. In Il gusto delle cose recita accanto al suo ex compagno Benoît Magimel dopo oltre 20 anni: com’è successo?
«Ero impegnata con questo film già da un anno e mezzo, c’era un attore che ha lasciato, poi ne è arrivato un altro e ha lasciato anche lui, un incubo… Finché uno dei produttori ha pensato a Benoît, e lui ha accettato subito».
Com’è andata? Sembrate molto affiatati…
«All’inizio mi sono detta: sarà dura… E in effetti è stato complicato. Io sono la cuoca, ma Benoît voleva cucinare più di me. Quando l’ho fatto notare al regista, gliel’ha detto e lui si è arrabbiato. Poi ha capito, e le cose sono cambiate».
A film concluso, come definirebbe questa esperienza con il suo ex compagno?
«Liberatoria. Abbiamo avuto modo di stare l’una in presenza dell’altro senza i blocchi emotivi di un tempo».
Il cinema francese regala ancora parti interessanti alle donne rispetto a quello americano, mi sembra.
«È il motivo per cui resto perlopiù qui, nonostante abbia l’opportunità di lavorare all’estero dato che recito anche in lingua inglese».
Il gusto delle cose è un film sul cibo?
«No, il cuore del film non è il cibo ma come questo viene trasformato in amore, bellezza, colori, condivisione. Cucinare è la materializzazione della sensualità».
Lei come definisce la bellezza?
«In realtà non la definisco, è una sensazione che mi toglie le parole e mi rende felice. La bellezza è legata all’amore, mi dico. Ma poi mi chiedo: l’amore per cosa? Non ho una risposta razionale, è indescrivibile».
L’ultima volta che ha vissuto questa sensazione?
«Per me è un’esperienza che rientra nella vita spirituale, la provo quando mi elevo verso un’altra area nel mio cuore. Quando prego, sperimento la bellezza».
Questa bellezza dello spirito è più potente della durezza della vita?
«La vita ci sfida. Una sfida che riguarda il modo in cui siamo in grado di cambiare. Assomiglia a una domanda: sei in grado di sperimentare le cose brutte in modi diversi, cosicché ti possano trasformare?».
La recitazione è uno strumento di trasformazione?
«Straordinario, direi: le cellule del tuo corpo devono credere in ciò che fai, e la fede è lo strumento per trasformarti, ti fa credere che sia possibile».
Maturando è più difficile o più facile avere fede?
«Da bambina avevo fede: qualunque cosa accadesse credevo che mi fosse stata data in dono. Da adolescente non ero consapevole di quel potente strumento ma poi, avendo affrontato situazioni difficili nella vita adulta, ho iniziato a viverla in modo più consapevole. Sono cresciuta senza riferimenti stabili e per molti anni ho vissuto il trauma dell’abbandono Questo mi ha spinta a cercare molto in me stessa e a imparare ad amarmi, tutti elementi fondamentali nel mio lavoro».
In che senso?
«Da attrice, se non credi non funziona. Devi credere che il direttore della fotografia, il regista, gli altri attori, tutti i membri della troupe daranno il meglio: questa è la fiducia di base. Poi sai che ti sei preparata per il ruolo e ti fidi del fatto che le emozioni arriveranno quando dovranno arrivare. Quello che sto descrivendo ha a che fare non solo con il dare, ma anche con il ricevere: se non sei pronta a ricevere dagli altri, la fiducia non funziona».