Trent’anni. Tanto ci ho messo a scoprire che la frase cult «È meglio bruciare subito che spegnersi lentamente», scelta da Kurt Cobain per chiudere la sua lettera-testamento prima di suicidarsi il 5 aprile 1994 a Seattle, è una citazione del collega Neil Young.
Kurt Cobain come lo ricordiamo
Un peccato lieve per chi, come me, nei ’90 era appena entrata nei 20 e sperava di intercettare su Mtv il passaggio di un video altrettanto cult: il leader dei Nirvana in versione angelo biondo che cantava una cover di David Bowie, The man who sold the world, con una voce ruvida di cosmica tristezza, un maxicardigan verde-giallo di lana grossa infeltrito, i capelli lunghi luridi attaccati al viso e una aureola di glamour mista a santità che preludeva già all’imminente fine.
Quella performance faceva parte del concerto Unplugged in New York, rimasto uno degli album imprescindibili per i giovani della Generazione X insieme a Nevermind. Cercare di decifrare il mistero di quella visione è a tutt’oggi impossibile: 3 decenni dopo, Kurt Cobain sembra ancora seduto sotto a un lampadario di cristallo, con la chitarra in mano, circondato dai suoi moltissimi fantasmi, mai invecchiato, eternamente pallido, depresso, adolescente anche se aveva appena compiuto 27 anni.
Leggenda vuole che mamma Wendy, appena saputo della tragica morte del figlio (si sparò un colpo di fucile in bocca nella veranda della sua villa di Seattle, senza che a nessuno venisse in mente di cercarlo lì per 3 giorni), disse: «È andato a raggiungere quello stupido club. Gli avevo detto di non farlo». Wendy si riferiva al gruppo di artisti morti 27enni, come Janis Joplin, Jim Morrison, Jimi Hendrix, tutti volati in cielo senza mai affacciarsi alla vita adulta e perciò condannati a rimanere per sempre giovani, come noi non lo siamo più e come loro non avevano ambizione di diventare: ex teenager consumati da traumi infantili, famiglie disfunzionali, fughe e abbandoni che trovavano temporaneo conforto in massicce dosi di eroina.
La biografia di Kurt Cobain
La salita al paradiso del successo e la discesa all’inferno di Kurt è ben raccontata dal critico musicale Charles R. Cross nella biografa Più pesante del cielo, scritta nel 2001 e oggi rieditata in Italia da il Saggiatore. Una monumentale opera che gli è costata 4 anni di ricerche e più di 400 interviste, un resoconto dettagliato della vita di Kurt Cobain che scioglie un po’ di quella magia intorno alla figura iconica del bellissimo eroe tragico della musica grunge che adoravamo come un semidio.
E ci restituisce un ritratto molto umano, travagliato e borderline della stella cresciuta ad Aberdeen, sobborgo di provincia dello stato di Washington dove alla fine degli ’80 la crisi delle segherie e la bolla delle “dot com” iniziavano a galoppare, insieme all’insofferenza per lo yuppismo, alla nascita dei movimenti no global e al diffondersi del look trasandato con camicione a quadri e jeans sdruciti che riuscì ad attecchire anche in Europa e nei nostri guardaroba. «Non si era mai vista una rockstar come Kurt Cobain» scrive Cross. «Era un antidivo, uno che si rifiutava di salire su una limousine per andare alla Nbc e che in tutto quello che faceva infondeva uno stile da negozietto dell’usato».
I Nirvana: la storia della musica
Sconosciuti al grande pubblico ma già noti nei giri della musica underground, i Nirvana avevano scalato le classifiche con Smells like teen spirit, il pezzo più ascoltato nel 1991, «dal riff iniziale di chitarra che aveva segnato la vera nascita del rock degli anni ’90» continua Cross nella biografia in cui descrive Cobain così: «Kurt era un misantropo complesso e contraddittorio e il suo ribellismo istintivo tradiva indizi di una meticolosa preparazione. Pianificava e buttava giù le idee nei suoi diari anni prima di metterle in pratica, eppure quando otteneva i riconoscimenti si comportava come se gli scocciasse anche solo essere sceso dal letto. Aveva una personalità strabordante, eppure spinta da una clamorosa disistima. Persino chi lo conosceva bene sapeva poco di lui, come avrebbero dimostrato i fatti di quella mattina».
La storia con Courtney Love
L’epilogo da maledetto della storia del rock che decide di farla finita con uno dei suoi fucili nascosti nel guardaroba di casa dice molto, ma non tutto, di un artista che odiava la vita ma amava senza sconti una donna – madre della loro figlia Frances Bean – con la quale al primo incontro si azzuffò sul pavimento di un locale. Lei era Courtney Love, leader della band femminile Hole, più alta di 10 centimetri, più impulsiva, esagerata, sfrontata e sfacciata di lui, ma con almeno due cose in comune: un’infanzia da dimenticare e una propensione alla tossicodipendenza.
«Courtney conosceva il sapore gelatinoso del formaggio che si comprava con i buoni statali per le persone povere» scrive Cross. «Sapeva com’è andare in tour in un furgone e raccattare i soldi per la benzina, aveva fatto la spogliarellista e conosciuto un degrado che pochi possono assaporare. Entrambi avevano qualcosa da cui fuggire». L’amore dura 3 anni in cui succede di tutto: lei lo resuscita da più overdosi, gli salva la vita nel febbraio del 1994 a Roma quando finisce in coma strafatto, lo sposa sulla spiaggia di Honolulu indossando un vecchio abito di seta appartenuto all’attrice Frances Farmer, lui in pigiama azzurro scozzese con una borsetta guatemalteca.
Le ultime parole di Kurt Cobain
È lei a inviargli fax pieni di frasi d’amore quando è in tournée, a diventare la sua musa per canzoni scritte in camere d’albergo ridotte a topaie, a portarlo alle centinaia di visite mediche per curargli una gastrite cronica. Sono belli, luridi, in pasto alla fama, ai giornali di gossip, agli arresti per litigi furibondi. Sarà Courtney a far benedire da un monaco buddista le ceneri di Kurt e a spargerle nel torrente McLane, sarà lei a essere accusata di averlo istigato al suicidio e rimproverata per sempre di essergli sopravvissuta, persino di aver meritato le sue ultime parole: «Ho una dea di moglie che trasuda ambizione ed empatia. Ti prego, resisti, Courtney, per Frances. Per la sua vita, che sarà molto più felice senza di me. Vi amo, vi amo!».