«Com’è questa bambina?». Inizia così la storia di Emma e quella della nostra famiglia. Non proprio le parole tipiche di una nascita. È così che va in pezzi l’immagine della figlia che mi ero costruita in 9 mesi di gravidanza. Sono spiazzata, a me sembra solo bellissima. Lo è. «Me lo dica lei» rispondo nella speranza di essermi sbagliata. «Abbiamo un sospetto di sindrome di Down» dice tutto d’un fiato la dottoressa. Mio marito ed io rimaniamo pietrificati.

Le domande, dopo la diagnosi

Succede anche quando quella bambina non è ancora nata e ricevi l’esito di una diagnosi prenatale, è sempre una notizia inaspettata perché, per quanto tu sappia che potrebbe succedere, non pensi mai che toccherà a te. Lo vedo negli occhi dei genitori che vengono in associazione (Associazione Genitori e Persone con Sindrome di Down) a cercare un confronto o a cercare risposte che noi non gli diamo. Almeno non la risposta al «Cosa devo fare?». Il più delle volte hanno già deciso, ma noi siamo lì ad ascoltarli, per accoglierli, non per giudicarli. Siamo lì per raccontare le nostre storie e dare prospettive sulla vita che li aspetta. Capitò anche a me. Il giorno dopo la nascita di Emma vennero a trovarmi due mamme di un’associazione di genitori di Monza. Ricordo i loro nomi, i loro volti, le loro parole. Un incontro fondamentale per rimettermi al mondo dopo una notte di lutto. La bambina che avevo immaginato non c’era più.

Un viaggio con la sindrome di Down, verso la consapevolezza

Il viaggio da quella notte alla consapevolezza di oggi è stato un viaggio lungo. Abbiamo imboccato la strada panoramica invece dell’autostrada e qualche sterrato lungo il tragitto. Oggi vorrei poter tornare indietro e abbracciare la me di 18 anni fa e rassicurarla. Le direi di non avere paura, le direi di fare un passo alla volta e di godersi l’avventura giorno dopo giorno. Le direi che ha tra le braccia una neonata, non una diagnosi, le direi di mettere da parte tutte le aspettative perché nulla sarà come se lo immagina. Le direi che la sua bambina la sorprenderà, che andrà a scuola, lavorerà, si innamorerà, come tutti. Ammetterei che, sì, a volte sarà difficile, che a volte si sentirà in colpa, che le si stringerà il cuore a vederla affrontare le sue fatiche, che spesso si arrabbierà, ma le direi anche che arriveranno giorni di cuore pieno e autentica felicità, anche se oggi le sembra impossibile.

Ferite e battaglie

Le racconterei di quella volta che la scuola ha impedito a Emma di andare in gita con la sua classe perché non erano preparati. Avevano trovato scuse ridicole per non provarci nemmeno. Le direi con onestà che sarà molto doloroso e che quella volta rinuncerà a fare l’ennesima battaglia per difendere i diritti di sua figlia. Ci saranno momenti in cui sarà meglio lasciare andare, sarà Emma a chiederlo con grande maturità e il bisogno di non vedere sempre sua mamma piantare casini per lei. Ci sono ferite che devono aspettare tanti anni a essere rimarginate, ma le prometterei che arriverà un giorno in cui sua figlia frequenterà una scuola in cui gli insegnanti non si chiederanno se Emma potrà andare in gita con loro o no, semplicemente ci andranno. Le dirò anche che sua figlia in quella gita a Dublino ha bevuto Guinness con le compagne, ha mandato selfie buffi e colmi di felicità e si è innamorata di Oscar Wilde.

Sindrome di Down e autonomie conquistate

Le racconterei di quella volta che ha preso l’autobus da sola, della fatica che avevo fatto a lasciarla provare. L’ho monitorata con l’app per tutto il percorso e ho trattenuto il respiro per i 30 lunghissimi minuti del tragitto. Le confesserei che non ho resistito e mi sono nascosta dietro un cartellone pubblicitario vicino alla fermata per vederla arrivare: ho tirato un sospiro di sollievo, l’ho vista saltellare di gioia, attraversare con sicurezza e prendere fiera la via di casa. Alla me di 18 anni fa direi anche che dopo quella prima volta è stato tutto più facile, arriverà un momento che non la spierai più e non controllerai più l’app di tracciamento. Sarai fiera di tua figlia e avrai fiducia nelle autonomie conquistate.

Meno pregiudizi e meno paure

Le racconterei che il giorno in cui è nata è come se ci avessero messo davanti uno di quei giochi “unisci i puntini”. Quando hai davanti uno di quelli facili con pochi numeri, ti fai già un’idea dell’immagine che uscirà alla fine. Quel giorno invece il gioco aveva qualche migliaio di numeri e io non trovavo nemmeno il numero 1 da cui cominciare. Le dirai che da quel giorno i puntini li ha uniti mia figlia, uno a uno, rivelando un’immagine di sé tanto inaspettata quanto meravigliosa. Emma ha scardinato ogni mio pregiudizio, ha rassicurato una a una ogni mia paura. Ci sono ancora tanti punti da unire per completare il quadro, sta per finire la scuola superiore, poi ci sarà il lavoro, la vita indipendente, il dopo di noi, ma la penna ora è in mano di Emma.

Dopo i 18 anni, verso la vita adulta

Emma ha compiuto 18 anni, siamo al giro di boa della vita adulta. Il momento in cui si fanno i conti con i genitori che siamo stati e con le aspettative che abbiamo avuto, in cui ci guardiamo intorno stanchi e ci chiediamo se ora ci possiamo riposare. È qui che dovremmo sentirci liberi di lasciarli spiccare il volo e di guardarli da lontano. Da quella domanda spiazzante in sala parto a oggi mi sono esercitata ogni giorno per questo momento, perché sapevo che la tentazione di trattenerla e proteggerla sarebbe stata irresistibile. Eppure oggi mi sento pronta, pronta a lasciarla andare, pronta a darle la fiducia che mi chiede, pronta a godermi lo spettacolo di una giovane donna che va incontro alla sua vita adulta.

Diciotto (Salani), il libro scritto da Martina Fuga per la figlia Emma Orlandoni

Pensa anche tu che io possa

Si intitola Assume that I can (Pensa che io possa) la campagna internazionale per il 21 marzo, Giornata mondiale della sindrome di Down. Sono due le cose da fare: smetterla con i pregiudizi e sostenere le concrete potenzialità di ogni persona con sindrome di Down. È questo il doppio invito lanciato con la campagna di sensibilizzazione internazionale Assume that I can, promossa in tutto il mondo da CoorDown – Coordinamento Nazionale Associazioni delle persone con sindrome di Down (coordown.it). Il film Assume that I can nasce dalle parole pronunciate alle Nazioni Unite da Marta Sodano, 29enne con sindrome di Down, per raccontare gli ostacoli incontrati nella sua esperienza scolastica. E mira a usare in senso positivo la profezia autoavverantesi: «Se credi in me, se mi dai fiducia, potrai avere un impatto positivo e allora, forse, potrò raggiungere obiettivi anche inaspettati». In questi giorni sui social di CoorDown gli utenti condividono video con le loro storie, prendendosi gioco dei pregiudizi che hanno dovuto subire.