«Se la mia storia può aiutare anche solo una persona, sono felice di condividerla. Non ho paura di mostrare le difficoltà che ho avuto e come ci sono passato attraverso». Matteo Berrettini parla in diretta Zoom da Montecarlo, dove vive. Ha il video spento, non lo vedo ma so che il sorriso è tornato sul suo viso. Il malore che lo ha messo ko al Miami Open, fermandolo al primo turno, è un inciampo passeggero, colpa di una brutta influenza intestinale e del caldo. Lo dimostra il fatto che, pochi giorni dopo, ha vinto il torneo ATP di Marrakech, il suo ottavo titolo in carriera.
Il bicchiere è pieno, dice: dopo quasi 6 mesi di stop e una catena di infortuni lunga 2 anni, è tornato in campo Le sensazioni sono buone e questo vale più della vittoria di un match: è una conquista non scontata per il corpo e per la testa. Passare da una finale di Wimbledon a un calvario di guai fisici – al piede, alla mano, agli addominali, alla caviglia, di nuovo al piede – schianterebbe chiunque. Se si aggiunge il veleno degli haters sulla sua vita sportiva come su quella privata, uscire dall’onda di risacca ha un che di eroico. E, siccome la misura del campione sta non nella forza di restare in piedi ma nella capacità di rialzarsi, capita anche che rialzandosi si imparino lezioni importanti.
Quella di Matteo ha a che fare con la salute mentale. Tema a cui, non a caso, è dedicato il suo intervento in Zeta, serie originale Red Bull che racconta la nuova generazione di sportivi e le loro sfide. «È un progetto a cui tengo moltissimo» spiega. «Coinvolgerà diversi atleti su diversi temi importanti. Io ho scelto di parlare di salute mentale. Ho voluto farlo perché riguarda la mia storia».
Intervista a Matteo Berrettini
Gli atleti sono sempre stati descritti come supereroi. Sappiamo che non è così, e che negare le fragilità fa danni. Ammetterle, d’altra parte, non è scontato.
«Io ci sono arrivato con il tempo. Quando fai sport ad alti livelli diventi bravo a lasciarti scivolare addosso le cose, perché qualsiasi cosa tu faccia c’è sempre un milione di complicazioni. Serve allenamento, però, anche in questo».
Come ci si riesce?
«Ti viene chiesto di costruirti questa idea di te come un superuomo impermeabile a tutto. Fai finta che nulla ti tocchi quando, invece, le cose ti toccano eccome: non sei invincibile ma vivi con la mente e il corpo come se lo fossi. Se però sei abituato all’idea che nulla ti può toccare perché tu sei forte, quando arrivano le difficoltà e quel pensiero non funziona, vacilli».
È un problema degli atleti?
«No, è un problema di tutti. Io ho le paure e le emozioni dei ragazzi della mia età, non sono un alieno perché gioco bene a tennis. E questo dovrebbero capirlo sia i fan che tendono a esaltarmi sia quelli che mi criticano: noi atleti non siamo né meglio né peggio degli altri. Invece, oggi, si confonde la persona con il personaggio. E i social l’hanno portato all’estremo».
Anche le persone comuni tendono a condividere sui social un’immagine diversa dalla realtà.
«Se in foto non ti piaci, usi i filtri. Se una cosa non la posti, è come se non fosse esistita. Non voglio fare discorsi qualunquisti, ma è così. E invece dietro a quelle foto c’è una vita in cui soffri, gioisci, cadi, ti rialzi, e ognuno lo fa a modo suo. Per capirlo mi ci è voluto tempo, a 19-20 anni vedevo tutto o bianco o nero, poi ho capito che la zona grigia è molto più ampia».
Accettare i cedimenti del corpo
Per lei le difficoltà sono coincise con i problemi fisici. Cosa vuol dire, per uno che vive di sport, quando il corpo dà scacco matto?
«In realtà, con i problemi fisici ci convivo da sempre: a 10 anni mi hanno diagnosticato una patologia genetica alla schiena e già lì avevo iniziato un percorso riabilitativo. Da allora il mio corpo tende a rallentarmi, quindi sono abituato a gestire questa situazione. Negli ultimi 2 anni, però, ci sono stati momenti in cui non mi sentivo nemmeno più un atleta, come se il mio corpo si rifiutasse di performare. Sono arrivato anche a chiedermi se davvero fossi fatto per giocare a tennis».
Che risposta si è dato?
«Nel profondo non l’ho mai dubitato. Però la domanda me la sono fatta davvero, perché non capivo come potessero arrivare quei guai fisici tutti insieme. Il problema non è quando il corpo ha dei cedimenti, ma quando la testa non li sostiene. Per molto tempo dagli infortuni sono tornato più forte: mi sono operato alla mano e dopo ho vinto 2 tornei. Poi, a un certo punto, quel serbatoio di energie si è esaurito. E mi sono trovato nel buio, con il corpo che aveva bisogno di tempo e la mente che glielo negava. Un limbo in cui non mi riconoscevo più».
Matteo Berrettini: Accettare gli aiuti degli altri
Come è uscito da quel limbo?
«Dicendo a me stesso che volevo ancora essere un tennista, anche se il mio corpo e la mia mente dicevano che non lo ero più».
Ha chiesto aiuto a qualcuno?
«Certo. Da solo non ce la fai. E lo dico io che, per carattere, tendo a chiudermi in me stesso. Lavoro con un mental coach da quando ero ragazzino e da 2 anni con uno psicologo: mi hanno aiutato a darmi tempo, mentre in genere smanio che le cose succedano. Tanto, poi, hanno fatto la mia famiglia e le persone care: nessuno di loro mostrava paura che la mia carriera fosse finita e questo mi ha dato forza. Gli altri, però, non bastano».
E quindi?
«Dipende da te: o reagisci o resti nel buio. Non puoi pensare che un altro faccia il lavoro sporco al posto tuo. Io ce l’ho fatta ripartendo dalle basi. Per riuscirci ho cambiato allenatore, scelta non facile perché per me era un secondo padre. Buttarmi in una sfida nuova mi ha dato quella strizza necessaria per lavorare a testa bassa».
Gli sportivi sono abituati a prendere farmaci per curare i problemi fisici, ma per curare la salute mentale ancora no: lo stigma è forte. Lei che cosa ne pensa?
«Penso che sia molto vero. Io mi sono imbottito di antinfiammatori per giocare quando avevo male. Anche adesso che ho avuto un virus intestinale, per scendere in campo ho preso di tutto. Con il corpo sembra tutto facile, automatico. Se ti rompi una gamba, vai dall’ortopedico. Se ad andare in tilt è la testa, questo automatismo non c’è. Manca l’educazione di base. Poi, non è detto che si debbano prendere farmaci per forza: dei pain killers non bisogna abusare, e lo stesso vale per gli psicofarmaci. Però non devono essere tabù per nessuno, nemmeno per gli sportivi».
Nel tennis la pressione è altissima. Quanta arriva da dentro e quanta da fuori?
«La pressione più grande te la metti addosso da solo: io faccio il tennista non perché lo vogliano i miei genitori o i miei allenatori, ma perché lo voglio io. La voglia di vincere è un fuoco che mi brucia dentro, ed è difficile da contenere. Le aspettative esterne sono come benzina che viene buttata sopra, soprattutto dai social».
Gli haters sui social non l’hanno risparmiata.
«La pressione che parte da te devi dosarla in mezzo a tutto quello che ti viene sputato addosso. Io faccio un sacco di errori e accetto che mi vengano fatti notare, ma l’odio gratuito no. Lanciare insulti per attirare like è facile: c’è gente che vive per questo e chi ha un’esposizione pubblica come me ne fa le spese. Col tempo sono riuscito a ingrossarmi le spalle e le cose mi toccano meno. A volte riesco anche a riderci su, ma ci sono momenti in cui è pesante gestire queste invasioni nella tua vita: non credo di meritare certe cattiverie. Però quelle parole durano giusto il tempo di leggerle, basta la telefonata di un amico e scompaiono».
Influenza a parte, è tornato in campo. Come sta?
«Bene. In questi mesi ho ritrovato l’amore per quello che faccio e la voglia di svegliarmi con il sorriso».
Sarà agli Internazionali d’Italia a maggio?
«Spero proprio di sì. Manco da 2 anni e non vedo l’ora di giocare».
Zeta, Berrettini tra i campioni GenZ che si raccontano
Lo scorso 9 aprile è uscita Zeta, la serie originale racconta la Generazione Zeta attraverso 5 storie di atleti nel pieno dei loro vent’anni. La inaugura proprio Matteo Berrettini, che racconta senza filtri il duro incontro con la “depressione” e come ha trovato la forza di tornare a divertirsi giocando. Guarda il trailer qui: