Un Biopic su Paolo Villaggio? Difficile avvicinarsi a un talento così particolare, surreale e tragico allo stesso tempo. Il papà del Professor Kranz, di Fracchia, di Fantozzi. Eppure il film Come è umano lui di Luca Manfredi, su RaiPlay, con Enzo Paci nella parte del geniale comico genovese nato nel 1932 e scomparso nel 2017, in qualche modo ci riesce. Racconta la famiglia, i sogni, gli amori, il lavoro alla Cosider che tanto lo ispirerà, l’incontro con Maurizio Costanzo, i primi successi… Ma lì si ferma. Noi abbiamo chiesto alla figlia Elisabetta, regista e autrice tv, com’era suo padre.
L’infanzia a casa Villaggio
Il ricordo d’infanzia più caro?
«Forse quando abitavamo ancora a Genova. Lui aveva una grande passione per il mare, che ci ha trasmesso. Uscivamo in barchetta e si andava a mangiare in questi posticini dove si arrivava solo via mare. Era un padre affettuoso, aveva preso dalla nonna materna».
Mentre la madre, come viene descritta nel film, sembrava piuttosto rigida.
«Era molto rigorosa, credeva nella disciplina. Mio padre da ragazzo era ribelle e lei non gli dava le chiavi di casa. Arrivava a mettere le pentole vuote lungo il corridoio d’ingresso. Lui magari entrava di notte, con la complicità di Olga, la donna che abitava con noi, ci inciampava e succedeva un pandemonio».
Il suo gemello Piero era diverso.
«Uno studioso, ingegnere come il padre: è stato preso alla Normale di Pisa».
Gli amici e gli amori
Chi erano gli amici di “Paolo il ribelle” in quella Genova anni ’50 così perbenista?
«L’unico ragazzo se vogliamo “allegro” era Fabrizio (De André, ndr). Erano simili: anche lui veniva da una famiglia borghese con regole ben precise, anche lui aveva un fratello molto studioso. Insieme passavano notti e giorni a raccontarsi la vita, scrivere versi di canzoni, bere, guardare le ragazze…».
Tra queste c’era Maura, che sarebbe diventata sua moglie. Il grande amore durato tutta la vita. Ma ho letto che erano anche molto liberi, un matrimonio aperto…
«Si sono conosciuti che mia madre aveva 16 anni, a Genova. Mia nonna materna, triestina, era una donna molto libera per quegli anni: si truccava, fumava, amava bersi un grappino, portava i capelli sciolti. Mamma è cresciuta con quell’esempio. Poi, sì, è vero, hanno avuto, come dire, un rapporto abbastanza libero, però si sono amati e sono rimasti insieme tutta la vita. Anche se poi, secondo me, c’erano gelosie nascoste».
Che rapporto aveva con le donne?
«Ne era attratto. Pensandoci ora, gli piacevano quelle che erano l’opposto di mia madre, ma non tanto dal punto di vista fisico. Intendo donne che lavoravano. Mia madre ha sempre solo fatto la moglie e la mamma».
Il rapporto tra Elisabetta e Paolo Villaggio
Come viveva da piccola il successo di suo padre?
«Non ero contenta perché ero timida: Elisabetta scompariva e diventavo la figlia di Paolo Villaggio, questo mi dava fastidio. Quando venivano i fotografi, mi nascondevo».
Lui a casa com’era?
«Poteva essere molto burbero, se sul lavoro c’erano cose di cui non era soddisfatto. Ma poteva essere anche molto allegro, divertente, soprattutto se c’era gente intorno, amici, aveva bisogno della socialità».
Una volta lei ha detto che suo padre le ha insegnato la felicità.
«Sì, nel senso di vivere in modo positivo, di non lamentarsi, perché la nostra vita siamo noi a crearla. Mio padre credeva nell’homo faber del proprio destino. Diceva che ognuno si deve fare da solo. Poi sicuramente la storia di mio fratello l’ha segnato in questo senso».
Le difficoltà del secondogenito Pierfrancesco
È stata lei a scoprire che si drogava?
«Sì, Pierfrancesco aveva 17 anni. È stata dura perché in queste situazioni non sai mai se credere quando uno ti dice “Questa è l’ultima volta, aiutami” oppure pensare che è un bluff. Io e mio padre ne abbiamo parlato a lungo, cercando insieme di capire come affrontare la cosa, anche perché mia madre era devastata. Poi per fortuna mio fratello è andato a San Patrignano e ne è uscito. Se non ci fosse andato, sinceramente, penso che non sarebbe neanche vivo».
Suo fratello ha detto in un’intervista che suo padre era un egocentrico. È vero?
«Credo che tutti quelli che decidono di fare quel mestiere un po’ lo siano. Diciamo però che la cosa ha anche un lato positivo: se scegli di essere felice, realizzato, e poi trasmetti questa felicità, allora la vita diventa più ricca anche per chi ti sta vicino».
Curiosità su Paolo Villaggio
A quale tra i suoi personaggi era più legato?
«Credo Fantozzi, è stato quello che all’epoca ha cambiato anche il linguaggio. Oggi Paolo Villaggio magari i bambini non sanno chi è, ma Fantozzi sì».
Cosa leggeva?
«Amava Dostoevskij e Kafka. Sia a me sia a mio fratello, e anche a mio figlio, ha messo in mano i loro libri da piccoli. E poi amava la cultura giapponese».
E al cinema cosa gli piaceva?
«Stanlio & Ollio, li adorava. Woody Allen. E poi Luis Buñuel. Credo per quel suo sguardo surreale nei confronti della vita. Lo stesso che un po’ aveva anche lui».