In ogni favola che si rispetti a qualcuno tocca la parte del cattivo. Che poi lo sia davvero o faccia cose cattive perché il ruolo le impone, conta poco: l’importante è che ci sia, altrimenti la trama non regge, nei libri e nella realtà. Poi ci sono le storie perfette, dove l’elenco dei cattivi è lungo e i colpi di scena così tanti che, alla fine, non sai più di chi puoi fidarti e di chi no.
La favola di Nadia Comaneci
La vita di Nadia Comaneci – la bambina prodigio rumena che a Montreal nel 1976, a 14 anni, regalò alla ginnastica artistica e al regime comunista di Ceausescu il primo 10 perfetto mai ottenuto da un’atleta su un palcoscenico olimpico (oltre a 5 medaglie) – è una di quelle. Dentro c’è tutto: la gloria sportiva, il talento, le medaglie d’oro, la fama, la nascita di un mito più forte del tempo, ma anche gli abusi, le spie, la depressione, la paranoia e la violenza di un regime tirannico e poi, alla fine, la fuga in America, la libertà e l’amore. A raccontarla, però, sono sempre stati gli altri.
A tutti quelli che raccontano la sua vita, Nadia Comaneci risponde: «Il passato è passato»
L’ultimo, in ordine di tempo, è lo storico Stejarel Olaru, fino al 2010 direttore generale dell’Istituto per le indagini sui crimini comunisti in Romania, autore di una biografia da poco uscita in Italia per Piemme e intitolata Nadia Comaneci e la polizia segreta, che restituisce al mondo una verità rimasta nascosta per 40 anni negli archivi della Securitate, la polizia segreta di Ceausescu: quella degli abusi subiti da parte dei suoi allenatori, Béla e Marta Károlyi, e del governo che la considerava “persona di interesse” e come tale la controllava, limitando in ogni modo possibile la sua libertà. Un lavoro enorme che scava dentro anni di intercettazioni ambientali e telefoniche, dentro i dossier dei delatori e nei rapporti delle spie che rendicontavano incontri, conversazioni, relazioni sentimentali e spostamenti, dando così un perché a molti punti mai chiariti nella vicenda umana e sportiva di Comaneci: dal tentato suicidio al rapporto con la famiglia Ceausescu, dalla fine anticipata della sua carriera alla decisione di scappare in America nel 1989. Questioni rimaste aperte 40 anni per una ragione su tutte: il silenzio con cui Comaneci ha archiviato quella fase della sua vita. Lo stesso riservato non senza coerenza anche al libro di Olaru, liquidato con un “no comment”: il passato è passato, ha detto all’autore declinando ogni proposta di intervento, non c’è bisogno di riaprire capitoli chiusi.
Nadia Comaneci e le violenze degli allenatori Béla e Marta Károlyi
Il che rende complessa l’impresa di ricomporre il puzzle della sua storia. Per riuscirci conviene partire dalle tessere più facili da individuare, quelle dei cattivi. Una moltitudine che popola la vita di Nadia Comaneci a partire dal momento in cui il suo talento comincia a brillare fino al giorno della fuga in America, ognuno con il suo ruolo ma tutti accomunati da un unico scopo: usare la gloria della ragazzina prodigio a proprio vantaggio. I primi della lista, sono gli allenatori, Béla e Marta Károlyi, marito e moglie. Per tutta la vita Nadia darà loro il merito dei suoi risultati e mai muoverà nei loro confronti alcun genere di accusa, ma la versione che emerge dagli archivi della polizia segreta è una lista di violenze senza fine. «I due erano intolleranti e inflessibili. Non tenevano minimamente conto delle esigenze delle ragazze, ma solo delle proprie ambizioni» scrive Olaru, che cita sberle, insulti, fame, controllo delle cure mediche e la richiesta di allenarsi e gareggiare nonostante gli infortuni, tutte prassi riportate da informatori o intercettazioni.
Nadia Comaneci non li ha mai denunciati
Un metodo di gestione degli atleti diventato regola nella Romania comunista degli anni ’70 e da lì esportato nel resto del mondo, compreso quello libero, come chiave di certi successi nello sport. Non a caso Béla e Marta, violenti ma anche geniali nell’intuire il talento, hanno fatto dell’America dove erano fuggiti nel 1981 una superpotenza della ginnastica artistica, trasformando il loro ranch nel centro di allenamento della squadra nazionale dai tempi di Mary Lou Retton a quelli di Simone Biles. Una storia gloriosa finita nel modo peggiore, con lo scandalo degli abusi di Larry Nassar che i Károlyi avrebbero coperto o quantomeno non visto e reso possibili nel clima complessivo dei loro metodi abusanti mai cambiati. Al coro di accuse che ne è seguito, Nadia non ha mai aggiunto il suo nome, evitando di citare il suo allenatore e limitandosi a chiedere sicurezza per le giovani atlete e i loro genitori.
La famiglia Ceausescu nella lista dei cattivi
Il passato è passato, ma qualche volta torna a bussare. Della lista dei cattivi che popolano la storia di Nadia Comaneci, il tempo e la Storia hanno depennato quasi tutti i nomi. Prima Nicolae Ceausescu, il dittatore che voleva fare delle glorie sportive della piccola ginnasta un simbolo di potere per il Paese e per questo ne aveva limitato in ogni modo la libertà, ucciso insieme alla moglie Elena – cattiva anche lei – nella Rivoluzione di Dicembre del 1989. Poi Nicu Ceausescu, il figlio violento del tiranno ai cui capricci Nadia era stata sottomessa anni, per ragioni professionali (a detta di lei) o sentimentali (a detta di tutti), finito in prigione, poi scarcerato e morto per cirrosi nel 1996. E infine Béla, morto il 15 novembre scorso a 82 anni, il vampiro che, come ha scritto Emanuela Audisio su la Repubblica, le aveva succhiato il sangue e glielo aveva rimesso in circolo, dandole la sicurezza necessaria per volare.
Nadia Comaneci non ha mai fatto cenno alla depressione
Che cosa pensasse veramente dei suoi aguzzini non è dato sapere: nessuna critica diretta è mai stata pronunciata in occasioni pubbliche. Mai Comaneci ha rivendicato per sé il ruolo politico di paladina della libertà o l’intenzione di diventare un simbolo. Alla fine lo è stata per volontà degli altri, non sua. L’unica spiegazione, data ai tempi della fuga e anche dopo, è che mai nella sua vita aveva smesso di avere paura, finché un giorno ha detto basta: aveva l’occasione di andarsene dalla Romania e l’ha fatto. Punto. La sua era una questione privata, non pubblica. Di tutti i torti subiti, a parte l’essere spiata, non ha mai fatto cenno: né della depressione, né della fine anticipata e ingiusta della sua carriera imposta per evitare che fuggisse come i suoi allenatori, né del tentato suicidio liquidato in ogni intervista come un incidente involontario.
Nadia Comanci e Béla
L’unico dei morti a cui ha dedicato un pensiero è Béla. Ricordandolo in un post su Instagram, l’ha definito «a man larger than life», un uomo più grande della vita, che ha avuto sulla sua storia un impatto e un’influenza enormi. L’uomo a cui deve il suo successo, quello che ancora oggi le permette di essere un punto di riferimento per tutte le ginnaste. Se poi dentro di sé abbia distinto il bene dal male, riconoscendo gli abusi per quello che sono stati, resta un dubbio impossibile da sciogliere.
Nadia Comaneci in America ha trovato la libertà, un marito, una carriera
«Famosa in tutto il mondo» scrive Olaru «Nadia desiderava le cose semplici della vita: avere un fidanzato e fare una passeggiata con lui al parco, andare per negozi, in discoteca o al cinema, senza dover chiedere il permesso o giustificarsi». Essere un simbolo non era nei piani, e neppure la battaglia dei diritti nello sport: troppa attenzione alla lunga, sa bene, è un boomerang. In America ha trovato tutto quello che cercava – la libertà, un marito, una carriera – e va bene così. La vita si vive guardando avanti.