Alberto Boubakar Malanchino e la serie Doc
Alberto Boubakar Malanchino ha un dono: sa rendere semplici concetti complessi. Come fa il dottor Gabriel Kidane, il personaggio di Doc – Nelle tue mani che gli ha dato la grande popolarità. Nella seconda stagione della serie campione d’ascolti su Rai 1 Gabriel, arrivato dall’Etiopia con un bagaglio pesantissimo, è diviso tra la voglia di tornare nella sua terra d’origine e quella di continuare a prestare servizio al Policlinico Ambrosiano accanto al “Doc” Luca Argentero.
Un conflitto che non c’è in Alberto, italianissimo «e nemmeno si può dire di seconda generazione», fa lui, «perché mia madre è del Burkina Faso ma mio padre italiano». Ma che aiuta a raccontare il percorso di un attore – nato 30 anni fa a Cernusco sul Naviglio, formatosi alla Scuola Paolo Grassi di Milano, oggi protagonista di altre serie cult come Summertime – che sta cambiando la narrazione dell’inclusione in Italia.
Intervista ad Alberto Malanchino
Cominciamo da Doc – Nelle tue mani: qual è il segreto di questo successo clamoroso?
«È stata una scommessa vinta nonostante le mille paure dell’inizio: c’era il timore di proporre un medical in prima serata, e poi che potesse sembrare Dr. House, e ancora che si parlasse di medicina in piena pandemia. Tutto è stato sconfessato. La forza della serie è la coralità, ancora di più nella seconda stagione: il pubblico si è affezionato ai personaggi minori, che ora sono protagonisti pari agli altri. Sono contento: io e Gabriel ci siamo regalati tanto, sapere che c’è fiducia nel lasciarmi raccontare il suo percorso emotivo è un grande regalo».
In Gabriel convivono la sua storia di migrante e quella di professionista, cosa finora inusuale per i personaggi afroitaliani.
«Quando si vuole raccontare una storia figlia di una migrazione, il rischio è di renderla bidimensionale. Oppure di associare il colore della pelle a un unico status sociale, economico e ideologico. Con Gabriel non è così: è uno dei primi tentativi in Italia di raccontare la diversità senza scadere in storie strappalacrime fini a se stesse. Il mio obiettivo – che poi è quello di tantissimi colleghi di origine anche asiatica o sudamericana – è che ci siano sempre più ruoli in cui il colore della pelle non sia la “conditio sine qua non” ma un dato come un altro».
Quando ci si concentra solo sul colore della pelle si finisce per alimentare gli estremi opposti: o sei quello arrivato sul BARCONE che va salvato o devi essere la persona irreprensibile che nella vita ha avuto SUCCESSI stellari. Non viene riconosciuta la possibilità di essere NORMALI.
La sua esperienza è molto diversa da quella di Gabriel: anche questo aiuta il pubblico a comprendere che non c’è un’unica storia?
«Sì, ed è molto importante. Io non sono figlio della tratta: mio padre è nato qui, nella mia famiglia c’è il retaggio del Burkina Faso per via di mia madre, perciò ho maggiore empatia e propensione a capire certe dinamiche. Ma Gabriel è lontanissimo da me».
Quando da ragazzino sognava di fare l’attore temeva che sarebbe rimasto ingabbiato in uno stereotipo?
«All’inizio no, ero troppo incosciente per capire. La prima ad aprirmi gli occhi fu una mia insegnante di recitazione, che mi disse: “Il problema per te non sarà il lavoro, ma la qualità del lavoro”. Negli anni della gavetta è cresciuta la paura di restare fossilizzato in un certo tipo di personaggio e di pregiudizio: ho capito che dovevo sempre stare all’erta, che dovevo dire qualche no, se il mio scopo era quello di cambiare la rotta. La svolta è arrivata con Easy living, un piccolo film in cui avevo un ruolo figlio della tematica calda dell’immigrazione ma fuori da ogni cliché. Come il Gabriel di DOC».
I suoi modelli da piccolo chi erano?
«In Italia non ho avuto riferimenti che fossero simili a me. In più, l’argomento dell’inclusione fino a poco tempo fa non era nemmeno in discussione, mentre oggi nel bene e nel male è presente. Guardavo all’estero: Denzel Washington, Will Smith… Qui non c’era il dottor Kidane di turno, qui era come entrare in un negozio e non trovare l’abito che ti calza addosso, ma solo perché non era ancora stato creato».
Con Gabriel quell’abito l’ha creato. «Lo stiamo creando in tanti, sarebbe scorretto prendermi tutto il merito: da soli non si vince nessuna battaglia».
Mi sorprendo sempre quando mi arrivano regali dalle fan. Una volta una ragazza mi ha mandato una scatola piena di vasetti di MIELE. Poi ha buttato lì che era single… Chi lo va a dire a MIA MADRE che sono considerato tra i medici più sexy della tv?
Perché ha detto che oggi questi temi sono presenti anche “nel male”?
«Perché, alla base di certi dibattiti, spesso c’è il rischio che la pancia prenda il sopravvento sulla testa: bisognerebbe fare un passo indietro e iniziare a capire come siamo arrivati a un determinato tipo di situazione sociale lasciando spazio a persone che affrontano questi temi tutti i giorni. Però i numeri stanno cambiando, e le nuove generazioni hanno più consapevolezza. Il problema, ripeto, è quando associ al colore della pelle un unico status possibile, è lì che si creano degli estremi: o sei quello arrivato col barcone che deve essere salvato o devi essere la persona irreprensibile che nella vita ha avuto successi stellari. Non viene riconosciuta la possibilità di essere “normali”».
Il gioco del “dottore sexy” la diverte, la imbarazza, l’ha stufata?
«Ma no! Io, Saurino e Spollon (i colleghi – rispettivamente il dottor Lazzarini e il dottor Bonvegna – diventati come lui sex symbol, ndr) siamo tre cazzari, ci ridiamo su. Se mai, ho detto per scherzare, chi lo va a dire a mia madre che sono considerato tra i medici più sexy della tv…» (ride, ndr).
Le fan la adorano, però: è un dato di fatto.
«Mi sorprende sempre quando mi arrivano i regali. Una volta una ragazza mi ha mandato una scatola piena di vasetti di miele, peraltro buonissimo. Poi ha buttato lì che era anche single…».
Qual è la prima immagine del Burkina Faso che le viene in mente, se dovesse raccontare il Paese di sua madre?
«L’immagine visiva è quella terra rossa che ti penetra dappertutto, nei vestiti, nelle scarpe, nel naso… Quella più ideale – che ho messo nel mio monologo Verso Sankara, nato dopo il mio ultimo viaggio lì nel 2016 – è il fatto che Burkina Faso è la congiunzione di due dialetti inventata da Thomas Sankara, un presidente illuminato. Tradotto, vuol dire più o meno “la terra degli uomini integri”. Ecco, quando penso al Burkina Faso, penso a un Paese che ha una sua fortissima identità, e che lotta costantemente per riaffermarla».