Come definire oggi Alessandro Cattelan? Conduttore, certo, ma anche intrattenitore, ora pure editore, si potrebbe dire divulgatore, parola fin troppo abusata ma che a lui s’adatta in modo quasi sartoriale. Tra Stasera c’è Cattelan su Rai 2, il martedì e il mercoledì in seconda serata, lo spettacolo teatrale Salutava sempre, lo speciale è su Netfix dal 15 marzo, e l’avventura letteraria con Accento Edizioni, da lui fondata un anno e mezzo fa e diretta dallo scrittore Matteo B. Bianchi, chiediamolo a lui chi è oggi, a quasi 44 anni.

Intervista ad Alessandro Cattelan

Lo saprà meglio di me, facendone molte ogni settimana. Tutte le volte che si comincia un’intervista, ci si chiede: “Cosa potrò tirar fuori di nuovo”?

«È vero. Se ci metto dentro pure E poi c’è Cattelan (dal 2014 al 2020 su Sky, ndr) ne ho accumulate parecchie. Io parto, più che dalla biografa del nome di turno o dalla promozione del film o del disco in uscita dalla mia curiosità. È la mia ancora di salvezza».

Questa curiosità dove la porta oggi?

«Col tempo, mi rendo conto sempre di più che mi aiuta la mia storia. Nascere in provincia, Tortona, andare via e affrontare una città che t’insegna tanto come Milano quando sei tutto sommato ancora un ragazzino mi ha portato a trovarmi a mio agio in qualunque contesto: riesco a parlare con persone semplici come me e a non fare brutta figura se sono in mezzo a gente più colta. La mia regola è sempre stata: stai zitto e ascolta»

È diventata anche la sua cifra professionale.

«Penso, di sì. Cerco di fare ogni cosa nel modo più simile a come sono io. Forse anche per una sorta di pigrizia, ma viene sempre fuori la mia persona».

Tra social vari e assortiti, oggi tutto può essere considerato intrattenimento.

«Già, e la forma intervista, se non ci aggiungi del tuo, è la più facile: ti basta avere un ospite, fargli quattro domande e hai il tuo contenuto. La mia fortuna è lavorare con ragazzi e ragazze con mille interessi. La base del gruppo è la stessa da una decina d’anni: siamo partiti molto eterogenei, ma dopo un po’ che stai insieme finisci per assomigliarti. Perciò ogni anno o due facciamo qualche aggiunta più fresca, pescando in vissuti diversi dai nostri».

Accento: un progetto originale

Parlando di novità, Accento è forse la più significativa. Com’è nata?

«Quando decido di fare qualcosa, la faccio sempre a cuor leggero, almeno all’inizio: al massimo me ne pento dopo. Ma penso sempre che non è una condanna, che ci sarà modo di sistemare. La preoccupazione, semmai, era rispetto a come sarebbe stata accettata questa impresa nel mondo dell’editoria, temevo il sospetto da parte di qualcuno di fronte al tipo arrivato dalla tv che apre la sua casa editrice, magari avrebbero pensato che fosse una sboronata. Invece ho trovato un sacco di amici: nelle case editrici indipendenti c’è molto spirito di squadra, quando i libri girano va bene per tutti».

Aprire una casa editrice di questi tempi è un atto quasi sovversivo, o quantomeno di grande fiducia.

«È vero. Ma si dice così perché si ragiona sempre dal punto di vista imprenditoriale, come a dire: metti i soldi nel settore in cui siamo fra gli ultimi al mondo. Che poi, non è che in Italia si legga poco, è che leggono in pochi, ma quelli tengono vivo tutto il mercato. La cosa complessa su cui non avevo ragionato è la decisione di puntare sugli esordienti, dunque, almeno all’inizio, sui giovani. Poi però abbiamo pensato che essere giovane non è un valore di per sé, è qualcosa che capita e poi svanisce. Perciò abbiamo spostato il tiro, pubblicando anche esordi di 50enni. Il messaggio, “non è mai troppo tardi per debuttare”, mi sembra ancora più bello e importante».

I giovani che incontra come sono?

«Al giorno d’oggi, trovare qualcuno di 20, 30 anni che abbia voglia di esprimersi non è un problema, ma che per farlo decida di scrivere un libro è già più difficile: puoi fare musica su YouTube, aprire un canale su qualunque social… Ci sono mille modi più semplici che mettersi lì a pensare un libro: portarlo fino alla fine è molto più faticoso che mettersi davanti alla web cam del telefono e dire quello che pensi. Mi piace vedere ragazze e ragazzi che ancora credono in questo sforzo».

La passione per la lettura

Lei che lettore è?

«Ero un non lettore fino a quando sono arrivato a Milano: per tutto il periodo della scuola facevi prima ad ammazzarmi che farmi leggere un libro. Fino ai 19-20 anni mi interessava solo giocare a calcio e non è che quello fosse un ambiente di lettori. Poi a Milano mi sono trovato in un contesto nuovo, in cui uscivo con persone nuove, e una volta che si finiva di parlare della tal canzone, o del tal film loro parlavano di libri e io non avevo niente da dire: mi dava fastidio, perché – come spiegavo prima – mi piace sentirmi a mio agio ovunque, e lì non lo ero. Quindi ho iniziato un lavoro di recupero, partendo dalle biografe dei personaggi che mi interessavano: credo sia il processo classico per i lettori ritardatari. Poi sono passato alla saggistica, dopo alla narrativa e da lì diciamo che sono diventato un lettore robusto».

Nella sua autobiografa, Woody Allen dice di aver cominciato a leggere Balzac e Tolstoj per far colpo sulle ragazze…

«Il fine ultimo è sempre quello», (ride, ndr).

Con le sue figlie legge?

«I figli imparano dall’esempio, puoi dirgli, “Leggi!” finché vuoi ma se non vedono te che lo fai è difficile che accada. Noi l’abbiamo sempre fatto e per loro è stato un gesto abbastanza spontaneo. Vanno a letto presto: la piccola (Olivia, 8 anni, ndr) si addormenta come un piombo, invece la grande (Nina, 13) un’oretta di lettura quasi tutte le sere se la fa».

Mi tocca una domanda, non me ne voglia: Sanremo?

«È una bellissima città (ride). Negli anni è diventata un’abitudine tirar fuori il mio nome, adesso ancora di più visto che Amadeus, che ha fatto un lavoro incredibile, ha deciso di mollare. Le assicuro che non so cosa succederà le posso solo dire che il fatto che il mio nome salti fuori è un onore: ho sempre cercato di fare le cose che mi piacevano, un po’ di nicchia, stando sempre fuori da quel tipo di mondo lì. Questo riconoscimento, anche solo simbolico, è la testimonianza che le mie scelte non sono state sbagliate, poi si vedrà».

Nello show Netflix Una semplice domanda s’interrogava sul senso della vita. A che punto dell’indagine si trova?

«Sono un po’ in difficoltà, sto cercando di capire come continuare questo lavoro, che registro usare, quanto peso dare al consenso. È una fase piena di dubbi ma, come sempre quando ho un problema, penso: se ne occuperà l’Alessandro del futuro, e arriverà il momento in cui si risolverà tutto».