Lui lo chiama “libro-madre”, perché ti fa nascere, ti porta a un’epifania che ti cambia la vita e lo sguardo sul mondo. Per Alessandro D’Avenia, scrittore e professore, quel libro è l’Odissea, testo amato, letto e riletto, studiato e ristudiato: ogni anno scolastico lo fa leggere ad alta voce ai suoi alunni per regalare loro la stessa straordinaria esperienza.

Il nuovo libro dedicato all’Odissea

«Anche io ci trovo sempre qualcosa di nuovo, nel testo e in me stesso» mi dice mentre mi racconta del suo nuovo libro: Resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali (Mondadori). Un libro in cui l’Odissea si intreccia con la sua vita, le nuove scoperte, il passato a volte anche doloroso. La depressione del padre, le delusioni d’amore, l’amore trovato, la maturità e la scoperta di essere mortale e quindi uomo. «Combattere guerre che non ci appartengono, perdersi in un mare di guai, naufragare e perdere tutto, persino la propria identità… Sono solo alcune delle tappe dell’Odissea, ma in realtà sono gli snodi della vita che tutti dobbiamo affrontare» scrive. Gli confesso che anche io l’ho ripresa in mano in occasione del nostro incontro e l’ho trovata un’opera rivelatrice.

cover_Resisti, cuore

L’intervista a Alessandro D’Avenia

Ma perché ha deciso solo ora di raccontarcela in questo modo? «Durante la pandemia mi sono ritrovato davanti a uno schermo a portare avanti il progetto di lettura integrale dell’opera che svolgo da quando insegno alle superiori. Io, che credo nella parola orale che si incarna quando ci mettiamo in cerchio riproducendo il banchetto omerico, mi chiedevo: “In video funzionerà?”. Ho scoperto che, pur nella follia della Dad, funzionava addirittura meglio. I ragazzi isolati nelle loro camerette erano come le persone che 3.000 anni prima si trovavano in posti distantissimi unite dalla narrazione tramandata dagli aedi. C’era come un ponte, una rete che li univa. Così mi sono detto: “Che potenza ha questo testo, capace di creare comunità dove la comunità si sta disgregando”. Questa cosa andava raccontata».

E le ragioni personali che l’hanno portata a scriverne? «Per anni ho letto e riletto l’Odissea e l’ho raccontata a tutti senza sapere bene perché. Sì, c’era il fascino della storia, gli studi che ho fatto, la narrazione immortale… Ma mi sono reso conto a poco a poco che in quel testo erano nominate delle cose che io non volevo ammettere a me stesso. Per questo tutto il libro è giocato sul tema del biglietto di solo ritorno, come Ulisse che torna a Itaca dopo essersi perso».

Mi spieghi meglio. «Ho passato tanti anni a raccontarmi delle cose per paura di affrontare la vita. E l’Odissea mi diceva: “Guarda che prima o poi la vita il conto te lo presenta. E te lo sto dicendo in anticipo”. È stata come una specie di profezia di tutto quello che io non avevo voluto vedere e che negli ultimi anni invece si è realizzato per me in modo doloroso. Il viaggio di ritorno a me stesso che dovevo fare. Perché mi ero scelto un tipo di vita che in qualche maniera mi proteggeva dalla vita stessa».

Già con L’arte di essere fragili aveva iniziato questo percorso. «Il sottotitolo di quest’ultimo libro, “L’arte di essere mortali” ammicca a quello. Ma se lì avevo analizzato la fragilità come condizione che ci accomuna tutti, qui forse sono andato un po’ oltre. Da chi si trasforma e sente la fragilità della trasformazione a chi deve ammettere a se stesso che un giorno morirà e che quel morire è il luogo della rinascita. Esistenzialmente a me è successo negli ultimi anni. Se lo avessi scritto prima sarebbe stata una riflessione sull’Odissea, invece ora è un’incarnazione dell’Odissea, una cosa ben diversa».

Infatti qui si è rivelato molto. «Sì. Scrivere questo libro è stato da un lato un piacere: raccontare l’Odissea a tutti e far sì che alla gente poi venga voglia di riprendere quel testo in mano. Dall’altro l’ho usata come lente per capire a che punto sono io della mia odissea. Ed è stato un passaggio doloroso. Come dico sempre, però, questa è l’unica opera da cui prendiamo il titolo per definire la vita stessa. Qualcosa di vero ci sarà pure».

Alessandro D'Avenia

Leggendo l’Odissea e quindi anche il suo Resisti, cuore noi possiamo fare lo stesso percorso? «I grandi testi della letteratura, in particolare questi legati al mito, sono testi iniziatici. Mentre li leggi o li ascolti ti devi trasformare. È quello che ti chiedono Dante con la Divina Commedia, Agostino con Le confessioni, Dostoevskij con I fratelli Karamazov: sono i libri che non ti fanno passare il tempo, ma te lo salvano. E ti fanno chiedere: cosa sto facendo del mio tempo? Il libro l’ho pensato come un vero percorso esistenziale che ho fatto io e che mi auguro possa fare chiunque lo legga. Ulisse perde tutto quando arriva nell’isola dei Feaci ed è come se fosse morto. Rinasce nel riconoscimento degli occhi degli altri. Non può più affidarsi a quello che sa fare, al suo io bellico, il grande guerriero, l’uomo dal multiforme ingegno. È al grado zero. A me è successo proprio questo: sei morto e scopri che c’è qualcuno che ti ama da morto».

Ulisse è anche un eroe che piange. «Sì continuamente, e questo la dice lunga su quanto la nostra cultura abbia perso dal lato maschile. Ma il pianto di Ulisse non è il piagnucolare su quanto la vita sia difficile, è il pianto di chi è separato dal proprio destino. È uno slancio, un desiderio, è esistenziale, radicale. È il “resisti, cuore”: c’è un luogo in cui siamo salvi ed è l’Itaca che è dentro di noi. Si tratta di fare fiorire quell’isola da dentro verso fuori».

Per tanti anni lei ha cercato la perfezione. «Cercavo un’immagine di me idealizzata. L’attenzione alla perfezione, alla bellezza, mi viene un po’ per ragioni culturali, dal mondo greco che ho studiato per tutta la vita e di cui mi sono appassionato non a caso: noi andiamo a cercare le parti di noi da cui ci dobbiamo difendere. Dal punto di vista esistenziale, però, era un modo per tenere lontano il dolore perché ne avevo vissuto troppo in momenti delicati e non ne volevo altro. Diciamo che questo è per me il libro del diventare adulti. Autentico».