Un bambino dentro un pozzo. Quarant’anni fa. E tutta l’Italia fuori. Lì fuori. Affacciata a quella finestra che chiamiamo tv. Spettatrice di una tragedia che si riassume in due parole: Vermicino, Alfredino. Non più due nomi che indicano un luogo e una persona, ma una tragedia che riempie l’immaginario di un Paese intero, un evento che ha cambiato il modo di guardare e fare televisione. A Vermicino, con Alfredino, l’Italia e la tv hanno perso l’innocenza. Era il 1981. Il mese di giugno. Un’unica lunga giornata iniziata mercoledì 10, verso le 7 di sera, e tramontata il mattino di sabato 13. Finita con l’incredulità e il senso di sconfitta di un popolo. Una lotta contro il tempo e contro la morte; e però la morte arriva. Dopo 18 ore di diretta. La televisione del dolore è qui che ha avuto il suo battesimo.
La vicenda
I fatti. Vermicino è un pugno di case e una strada fra Roma Sud e Frascati Nord. Quasi nessuno sa che esista. C’è un pozzo profondo un’ottantina di metri con una imboccatura di 28 centimetri. La sera del 10 giugno Alfredino Rampi, 6 anni, chiede il permesso di rincasare da solo dopo una passeggiata con il padre e due amici. Sparisce nel pozzo. A 36 metri di profondità. Cominciano le ricerche. Forze dell’ordine. Vigili urbani. Vigili del fuoco. Si scava un pozzo parallelo per poter liberare il piccolo. Invano. Sky Original recupera quella tragedia e il 21 e 28 giugno la propone in prima tv con il titolo Alfredino – Una storia italiana, regia di Marco Pontecorvo, interpreti Anna Foglietta, Francesco Acquaroli, Vinicio Marchioni. E ne fa, anche, una storia di speranza.
Nell’annunciare la miniserie parla di «un trauma collettivo che si è voluto trasformare in racconto nella speranza di aiutare a elaborarlo e superarlo». Nel pozzo il bambino non si vede mai. Giustamente. E viene ricordato che da quell’evento, da quel dolore e da quegli errori, anni dopo nascerà la fondamentale struttura della Protezione Civile.
Una diretta tv di 18 ore
Le prime notizie sono di giovedì 11 giugno. Il Tg3 racconta la vicenda in pochi minuti. Dal giorno seguente la Rai comincia la diretta a reti unificate: era stata avvertita che il salvataggio sarebbe stato questione di istanti. Si interrompono le programmazioni normali e tutti gli occhi si puntano sul preannunciato lieto fine. «Erano accorsi speleologi, tecnici, volontari, acrobati, nani, contorsionisti, tutti a provare a liberare il piccolo» ricorda Aldo Grasso, docente di Storia della radio e della televisione all’università Cattolica di Milano e da 30 anni critico televisivo del Corriere della Sera. Quarant’anni dopo, allarga ancora le braccia e ripete: «Il collegamento si era aperto con la notizia che all’ospedale San Giovanni era tutto pronto per l’arrivo di Alfredino. Poi si è cominciato a capire che qualcosa non andava, ma ormai la macchina dei media era lanciata. Vermicino si era trasformata in una fiera paesana improvvisata e disorganizzata». Arriva anche Sandro Pertini, l’allora Presidente della Repubblica, e sull’orlo del pozzo passa il pomeriggio, la sera e la notte. Fino alle 7 di sabato 13 giugno, quando la più lunga diretta di tutta la storia della tv italiana si chiude con queste parole: «Avevamo cominciato con ben altra speranza e mai credevamo di dover concludere così». Con la morte del bimbo.
La sconfitta del servizio pubblico
La diretta paralizza il Paese intero. Dalle 14 alle 20 di venerdì 12 si registra una media di 12 milioni di telespettatori, con una punta di 22 milioni alle 19.45. Mentre dalle 20 alle 24 l’ascolto medio è di 28 milioni. Ovvero, la metà esatta degli italiani che, nel 1981, sono 56 milioni. Perché nessuno ha fermato quella lunga, impietosa diretta durante la quale la morte si è fatta spettacolo? «Non abbiamo ancora superato quella tragedia» spiega Grasso. «Ce la trasciniamo dietro come un incubo collettivo. Come se quello shock visivo avesse procurato una piaga che non riesce a rimarginarsi. Con Vermicino la tv italiana è stata la prima al mondo a non controllare più la messa in onda dei fatti, ma a farsi condizionare dall’evento. È stata una sconfitta del servizio pubblico, dell’autorità, dei soccorsi e, di riflesso, di noi spettatori. Da allora le immagini non sono più una illustrazione della realtà, bensì una parte di essa, quasi un capovolgimento della realtà stessa».
Il primo reality della nostra tv
Fu il primo reality show. Con Vermicino un fatto di cronaca si è trasformato in una esibizione, nel fallimento di una comunità mediatica. «Era giusto o non era giusto trasmettere quella terribile agonia?» si interroga Grasso. «Era giusto o no puntare la telecamera su un bambino che stava sprofondando in un buco dove, di lì a poco, sarebbero sprofondate, con la pietà e la vergogna per il povero Alfredino, tutte le nostre concezioni sulla tv, sul rapporto tra informazione e spettacolo, sui conflitti fra vita e morte?». I discorsi che negli ultimi 30 anni si sono fatti sull’apparire in tv, sulla visibilità come condizione dell’esistere, cominciano con l’interminabile morte di un bimbo in diretta. Alfredino da quel pozzo non è più uscito. Solo in forma di cadavere, congelato, 28 giorni più tardi. Nessuno che abbia assistito alla sua agonia è uscito da quel pozzo. Nel frattempo, la tv e tutti i nuovi social si sono mangiati la realtà.