Mia madre ha fatto quello che desiderava e sono contenta che ci sia riuscita. Ha ispirato migliaia di donne in tutto il mondo a raggiungere di più nella propria vita». Sono le parole che pronuncerebbero tutte le figlie orgogliose della propria mamma. Ma dette da Kate Ballard assumono un significato più grande: perché la mamma di Kate è l’alpinista inglese Alison Hargreaves, che nel 1995, nel giro di pochi mesi, si trasformò da intrepida eroina a madre snaturata, in un dibattito che mai prima di allora aveva investito i suoi colleghi uomini che fossero padri. In quanto donna e madre Alison venne giudicata, per le aspirazioni e per le scelte. Come spesso accade, anche in mondi molto meno estremi di quello dell’alpinismo, a chiunque di noi sia allo stesso modo innamorata dei suoi figli e appassionata del suo lavoro.

Un’arrampicata al sesto mese di gravidanza

La storia di Alison comincia nell’estate del 1988. Lei, biondina di 1 metro e 60 scarso, sta salendo sulla verticalissima parete nord dell’Eiger, in Austria. Si sta facendo largo in un ambiente che è ancora quasi solo maschile, e aspetta un bambino. È al sesto mese. Le tremano un po’ le gambe? La risposta che passa alla storia è: «Ero incinta, non malata». A un giornalista che le chiede conto almeno della stanchezza e della goffaggine della gravidanza, spiega che non aveva ancora nemmeno il pancino. Non è proprio così. David Rose e Ed Douglas raccontano nella biografia Le regioni del cuore (Vivalda) che Alison soffre di nausea e vomita nei bivacchi notturni. Eppure il dubbio di aver fatto una cosa insensata non la sfiora. Ha 26 anni ed è convinta che il pericolo si possa controllare. Di quest’ultima prova prima della maternità ha bisogno, per dimostrare a se stessa che il suo talento, coltivato con entusiasmo, amore puro per la montagna e testardaggine, sarebbe rimasto intatto. La scalata le dà notorietà ma è in questo istante che si delinea l’immagine controversa della mamma alpinista, icona dell’indipendenza femminile e, insieme, simbolo all’ego smisurato della climber estrema. Una contraddizione irrisolvibile, per come andranno poi le cose.

La prima volta in Himalaya “alla pari con gli uomini”

Già da ragazzina l’arrampicata divora il suo immaginario e riempie le sue giornate, al limite dell’ossessione e dello scontro con i genitori, che pure le hanno fatto amare la montagna fin da piccola. A 18 anni Alison, nata il 17 febbraio 1962 in Inghilterra, rinuncia agli studi e va a convivere con Jim Ballard, il proprietario di un negozio di articoli sportivi in cui lavorava nei fine settimana. Ha 16 anni più di lei e diventerà suo marito, il padre dei suoi figli e il manager della sua carriera. Tra questo momento e l’Eiger ci sono imprese vertiginose e, soprattutto, c’è la prima spedizione sull’Himalaya. A 24 anni è in Nepal, dove conquista la fama di “quella che sale alla pari con gli uomini e si porta lo zaino da sola”. Fino ai 6.779 metri del monte Kantega: è da lì che Alison ammira, e desidera, per la prima volta l’Everest. Vorrebbe tornarci, ma al rientro inizia a pensare a un figlio. Non subito, perché «farebbe saltare tutti i piani!”. Poi cambia idea, forse per aggiustare un’unione barcollante. Jim agli occhi del mondo la adora. Ma in casa, nelle difficoltà economiche che spesso li assillano, diventa un tiranno. A volte la salva dalle crisi di inadeguatezza che nessuno da fuori immagina, a volte la mette sotto pressione. Alison cerca sempre, senza riuscirci, di essere indipendente e bastare a se stessa.

Una mamma normale, un’alpinista eccezionale

Nel 1993 la ritroviamo sulle Alpi. In un’estate scala le 6 pareti più difficili con tempi record. Mentre i giornali la definiscono un’extraterrestre, le foto di quei giorni mostrano una mamma sui prati con due bambini dalle guance paffute e arrossate, identiche alle sue. Oltre a Tom, “il figlio dell’Eiger”, 5 anni, c’è Katie, di 2, fortemente voluta. Alison scrive che l’impresa di quell’estate nasce dall’idea di trascorrere una vacanza con la famiglia. Serate sotto le stelle in campeggio e fughe sulle grandi pareti. Se chi la guarda salire vede una piccola furia, chi la incontra a terra si stupisce del suo aspetto ordinario: e infatti lei soffre un po’ il confronto con le climber snelle e palestrate amate dagli sponsor. Persino dietro questa impresa impressionante si intravede il tentativo da donna normale di tenere tutto insieme.

Alison, la prima prima donna sull’Everest senza ossigeno

Di problemi pratici ne ha molti, il più urgente è quello dei soldi: gli affari di Jim vanno male, i Ballard perdono la casa. Alison è convinta di non sapere né poter fare altro che investire sulla carriera alpinistica. Con un misto di ambizione e ben nascosta disperazione annuncia la solitaria senza ossigeno sul tetto del mondo. La “mamma coraggiosa sola contro l’Everest” attira l’attenzione dei media e degli sponsor di cui ha bisogno. I bambini, che ricorderanno per sempre quell’avventura meravigliosa, l’accompagnano al campo base ma il tentativo del 1994 è ostacolato dal maltempo. Nel fallimento cede anche il matrimonio. Non le resta che alzare la posta. Alison progetta le salite consecutive a Everest, K2, Kangchenjunga. E dopo appena 5 mesi riparte. «Per Tom e Kate. Miei cari figli, sono sul punto più alto del mondo e vi amo teneramente». Il 13 maggio 1995, dalla vetta dell’Everest parte questo messaggio radio.

La fine nella tempesta sul K2

Al suo rientro è accolta come la nuova stella dell’Himalaya. Alison ha sempre avuto difficoltà a vendersi bene, però adesso è dentro un meccanismo oliato e non si dà il tempo di riconsiderare il piano forse troppo ambizioso. Il K2 è temibile. Il clima è più freddo e mutevole che sull’Everest. Ma ancora una volta, a chi le chiede se ha paura, risponde che se avesse paura non lo farebbe. E visto che la maggior parte di chi perde la vita sul K2 è colto da una tempesta, il trucco è non farsi trovare in cima quando arriva. Secondo tanti alpinisti la montagna ha un’anima e una volontà. Se così fosse, è per quella frase che Alison viene punita. Il 13 agosto 1995 è in vetta. Lassù splende il sole. Ma nella discesa la bufera infuria a 140 chilometri orari e la spazza via. Un sopravvissuto dice di aver visto un suo scarpone e degli indumenti sparsi nella neve. Lei, famosa per l’ordine maniacale del bivacco e dello zaino.

«È stata sfortunata, il meteo l’ha tradita». «Ha osato troppo, ignorando i segnali negativi». «Doveva provarci se voleva vivere di montagna, l’ha fatto per i figli». «No, li ha abbandonati». Dopo l’incidente si disse di tutto, soprattutto male. Io raccolgo solo il dettaglio che mi interessa dai suoi diari: in quella spedizione il pensiero e la nostalgia dei bambini sono sempre stati con lei. L’avventura ad alta quota, anche se richiede doti atletiche speciali, ha più a che vedere con l’espressione di un talento artistico che con lo sport. Il “perché si fa?” resta una domanda inevasa. Nemmeno Alison Hargreaves aveva una risposta. Era felice di poter essere una brava madre, poteva essere felice solo scalando le montagne.