Il nuovo libro di Susanna Tamaro si intitola “Alzare lo sguardo” (Solferino) ed è dedicato alla scuola. In una lunga lettera a una professoressa la scrittrice riflette sul senso – e sulla perdita di senso – dell’insegnamento: «Nel secolo scorso abbiamo smesso di pensare che educare le nuove generazioni fosse una cosa importante» dice Tamaro. Se davvero è così, riflettere insieme a lei diventa una priorità.
Qui di seguito, un estratto dal libro in cui la scrittrice ricorda i suoi esordi scolastici. La Tamaro, come ha rivelato nel libro “Il tuo sguardo illumina il mondo” ha la sindrome di Asperger e quegli esordi furono talmente disastrosi e frustranti da generare in lei il desiderio di diventare insegnante “per aiutare i bambini come me, quelli che non capivano niente”.
Leggi l’estratto da “Alzare lo sguardo”
«Ricordo ancora il mio primo giorno di scuola. Indossavo un maglioncino color blu petrolio sferruzzato da mia madre, una gonna grigia che pizzicava terribilmente e avevo i capelli raccolti in due modesti codini legati da fermagli a forma di coccinella. Ricordo il caos della grande aula dove venivano gridati i nomi per comporre le varie classi e il terrore assoluto nel sentire quel frastuono, nel vedermi circondata da decine, centinaia di volti sconosciuti. Quando mi hanno chiamata, ho varcato quella porta con la consapevolezza dantesca del «lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». Non sapevo ancora né leggere né scrivere, non ero una bambina prodigio.
Mi è subito piaciuto l’abbecedario perché lì tutto era chiaro. Un bel pulcino giallo e sotto la lettera P, la luna e la L, un gattino e la G. Mi piaceva anche riempire le pagine di lineette, di riccioli, di tondi panciuti. C’era un ordine da rispettare e un’ossessività che ben si adattavano al mio carattere.
Non ho mai imparato a tenere la penna in mano – tutt’ora la impugno come fosse un punteruolo – però ero una bambina piena di silenziose curiosità e desiderosa di fare al meglio i suoi compiti.
Ma nell’ottobre della seconda è arrivata la catastrofe: il primo cinque della mia vita. Che cos’era successo? La maestra aveva detto che dovevamo studiare a memoria una poesia su Cristoforo Colombo per il giorno dopo. Io non avevo la minima idea di cosa volesse dire studiare, e tanto più a memoria, così il giorno dopo, vedendo la maggior parte delle mie compagne ripetere la poesia cantilenando con serena sicurezza, avevo capito di essere spacciata. Arrivato il mio turno, avevo cercato di inventare: «Le tre caravelle… erano grandi, erano belle…».
«Tamaro, un bel cinque! Non hai studiato niente e hai cercato anche di imbrogliare.»
Ricordo con perfetta lucidità l’angoscia di quelle ore. Come avrei potuto sopravvivere al marchio di infamia? Come avrei potuto camminare fino a casa, aprire la bocca davanti a mia madre e confessare il mio brutto voto?
Al termine delle lezioni avevo detto con voce tremante a mio fratello maggiore: «Ho preso cinque…». Ma lui – che all’epoca era quello che si diceva un discolo – non era sembrato colpito. «Cosa vuoi che sia!» La sua leggerezza però non mi aveva tolto dalle spalle quel giogo.
Al giorno d’oggi sarei stata considerata un BES, ovvero un Bisogno Educativo Speciale. All’epoca ero soltanto una bambina che non capiva niente; prendere fischi per fiaschi era la mia attitudine naturale; dire cose sbagliate nei momenti sbagliati era il secondo dei miei talenti.
Il passare degli anni mi ha reso sempre più fragile, sempre più insicura, più incapace di aprire bocca con il rischio di sentire il mio cognome accoppiato a quel simpatico quadrupede che ha l’abitudine di ragliare. Anche mio fratello ha avuto una carriera scolastica tutt’altro che brillante, ma la grande differenza tra noi era che lui non studiava affatto, mentre io trascorrevo ossessivamente il mio tempo sui libri cercando di migliorare, di imparare quello che per me era impossibile capire.
Ci può essere qualcosa di più frustrante che essere studiosi e andare male a scuola? La mia testa funziona in modo molto lento e, soprattutto, è incapace di mandare a memoria cose di cui non comprende il senso. Ecco perché ho desiderato insegnare, per aiutare i bambini come me, quelli che non capivano niente, a entrare dalla porta principale. Forse avrebbero potuto imparare molto di più se a loro fosse stata indicata una porta di accesso secondaria».