Amal Alamuddin Clooney, nota avvocatessa per i diritti umani nonché moglie dell’attore George Clooney, rischia di essere sanzionata dall’amministrazione Trump. Il motivo? La sua attività di consulente legale presso la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aja che ha emesso il mandato d’arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità. L’iniziativa ha suscitato forti reazioni da parte degli Usa, che hanno accusato la Corte dell’Aja di agire oltre i suoi poteri minacciando conseguenze anche per coloro che hanno collaborato con essa.

Il contesto legale e politico

Nel maggio 2024, la CPI ha annunciato l’intenzione di perseguire Netanyahu, il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant e il leader di Hamas per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Insieme ad altri colleghi esperti di diritto internazionale, Amal Clooney ha contribuito a far spiccare il mandato d’arresto internazionale. L’iniziativa ha suscitato forti reazioni da parte degli Usa (al pari di Israele non riconoscono la giurisdizione della CPI) che hanno accusato la Corte dell’Aja di agire oltre i suoi poteri.

Amal e Goerge Clooney

Che cosa rischia Amal Clooney

In risposta, l’amministrazione Trump ha emesso un ordine esecutivo che impone sanzioni a funzionari della CPI coinvolti in indagini su cittadini statunitensi o israeliani. L’ordine prevede il blocco di beni e la revoca del visto d’ingresso negli States. E sebbene Amal Clooney non sia un membro ufficiale della CPI, la sua consulenza legale la farebbe rientrare nel gruppo dei destinatari delle possibili ritorsioni. Amal, che ha la cittadinanza libanese e britannica, rischierebbe dunque di non poter entrare più in California, dove risiede insieme al marito George e ai figli.

La posizione di Amal Clooney

Inizialmente criticata sui social media per non aver parlato pubblicamente della situazione a Gaza, Amal Alamuddin Clooney aveva successivamente dichiarato cosa l’aveva spinta ad accettare l’invito della corte dell’Aja per una consulenza sul caso: «Ho fatto parte di questo gruppo perché credo nello stato di diritto e nella necessità di proteggere le vite dei civili. La legge che protegge i civili in guerra è stata elaborata più di 100 anni fa e si applica in ogni Paese del mondo, indipendentemente dalle ragioni del conflitto».

«Come avvocato per i diritti umani – ha aggiunto – non accetterò mai che la vita di un bambino abbia meno valore di quella di un altro. Non accetto che un conflitto sia al di fuori della portata della legge, né che un colpevole sia al di sopra della legge. Pertanto, sostengo lo storico passo compiuto dal procuratore della Corte penale internazionale per rendere giustizia alle vittime di atrocità in Israele e Palestina».