Per essere uno che sostiene di aver ottenuto finalmente quello che voleva dalla vita – una moglie adorata, due bambini gioiosi e altrettanti cani, l’autodeterminazione – il principe Harry passa un sacco di tempo a lamentarsi.
Il 10 gennaio esce l’autobiografia del principe Harry
A gennaio saranno tre anni dal giorno in cui ha annunciato il ritiro stizzito dalle scene reali, e il 10 – per celebrare? – in tutto il mondo uscirà Spare – Il minore, la sua autobiografia (pubblicata in Italia da Mondadori). Insieme i duchi di Sussex hanno passato più tempo da apocalittici che da integrati, ma sull’esperienza alla corte della regina Elisabetta hanno già prodotto, contando solo gli sfoghi maggiori: una cronaca dell’addio sostanzialmente autorizzata per il libro Harry e Meghan. Libertà nel 2020; un’intervista piena di stupori a Oprah Winfrey nel 2021; una docuserie in sei puntate (interminabili) su Netflix nel 2022. Alla vigilia dell’ennesima «verità» sorge spontanea la domanda: che cosa diavolo ci devono dire, ancora?
Quello che si sa dell’autobiografia
Fin qui, è pochino. Il libro dovrebbe essere il primo di un contratto da 20 milioni di dollari che ne prevede altri tre, incluso – secondo certe voci dell’Internet, non particolarmente attendibili ma piuttosto avvincenti – un favoloso manuale di salute e benessere scritto da Meghan. È stato annunciato più di un anno fa, rimandato e riscritto, messo in dubbio dopo la morte di Elisabetta e infine stampato. È firmato “Prince Harry” – il titolo che gli spetta per diritto di nascita – ma è scritto da J.R. Moehringer, il ghostwriter che ha reso Open di Andre Agassi l’opera struggente di un formidabile genio. E lo spirito sembra essere lo stesso: come Open, anche Spare ha in copertina il faccione del protagonista (però Harry ha lo sguardo più tormentato).
Quello che si immagina
È che, come Open, anche Spare racconti la storia di un bambino sensibile e di un padre snaturato. Il signor Agassi, per dire, al figlio aveva legato una racchetta da ping pong al polso per insegnargli a colpire la pallina sospesa sulla culla. E anche il padre di Moehringer non ha lasciato un buon ricordo di sé: in Tender Bar – che l’anno scorso è diventato un film, Il bar delle grandi speranze, con la regia di George Clooney – viene descritto come «una miscela instabile di fascino e rabbia» che gli ha lasciato un gran bisogno di «mentori, eroi, modelli» alternativi. Per re Carlo è una sembrato mai – ma per noi è ottima: non solo Moehringer sa scrivere, è anche privo di vergogna.
Quello che si teme
È che tanta pettegola aspettativa finisca in un pozzo di anticlimax, com’è successo con la serie su Netflix. Nonostante l’affanno a suggerire scandali sempre nuovi, i Sussex hanno un’unica storia da raccontare: come fu che diventarono vittime del sistema (Anche i ricchi piangono era Disneyland, in confronto). E la raccontano sempre nella stessa maniera, col tono umile ma orgoglioso di chi difende grandi ideali – una villa in California col pollaio, il diritto a farsi ritrarre solo in bianco e nero – e quello stile retorico che gli americani chiamano words salad, insalata di parole: iperboli suggestive, fatti incerti, sentimenti perentori. Più un formidabile talento per intercettare i tormentoni della contemporaneità: l’attivismo fotogenico, l’identitarismo opportunista, il frigno di tendenza. Da unconscious bias a gaslighting, niente è rimasto intentato.
Quello che si spera
È che Moehringer coltivi un vocabolario meno dozzinale. E che questo possa spezzare il ciclo che fin qui si è perpetuato identico: accusa accorata, squadrismo sui social, reazioni – perlopiù ufficiose – di palazzo, riesumazione di antichi scheletri (immancabile quello di Diana), repeat and fade fino all’accusa successiva. D’altra parte, il punto di vista di Harry è stabilmente quello del figlio di Diana, e non è mai stato adulto in sua presenza. L’autobiografia non potrà che essere la storia dell’elaborazione – ancora irrisolta – di quel lutto. Ci saranno i tempi magnifici delle risate sulle giostre e quelli spaventosi dei paparazzi nel telefono; le visite con la mamma ai malati di Aids e le top model invitate a merenda; la disperazione pubblica e il risentimento trattenuto; gli scandali di gioventù e i dieci anni passati a inventarsi una rispettabilità nell’esercito; il peso della Corona e la solitudine dell’eterno secondo. Spare è, del resto, come in Inghilterra chiamano l’erede di riserva.
Quello che si intuisce
È che progressivamente prenderà consistenza anche l’altro significato della parola, che è “risparmiare” – pure nel senso di “evitare un destino infame” – e, per estensione, “rinunciare”. Molto prima di incontrare Meghan, Harry aveva identificato nei tabloid la ragione di ogni male. Se le telefonate intime di vostro padre fossero diventate una barzelletta da prima pagina, se vostra madre si fosse schiantata inseguita dai paparazzi, se aveste perennemente 13 anni, sareste d’accordo con lui. E non è una novità che la famiglia reale abbia bisogno di coltivare un rapporto di mutuo profitto con i media per mantenersi rilevante. Robert Lacey, storico, consulente per la serie The Crown, racconta nel libro Battle of the Brothers che secondo Cressida Bonas sul tema Harry era già «narcisista e disturbato» all’epoca della fine della loro relazione, nel 2014: «Si infuriava e si lamentava dei paparazzi dietro l’angolo sempre, anche quando non c’era nessuno». Tra lui e la stampa non poteva esistere compromesso alcuno (al momento, ha cause in corso contro il Daily Mail, il Mirror e il Sun).
Quello che si sospetta
È che abbia fatto male i conti. Il suo unico valore sul mercato della celebrità è la faida col clan degli Windsor, William e Kate in particolare. La differenza tra una foto rubata, o pretesa nel nome ipocrita del «pubblico interesse», e le continue confessioni spontanee – minuziosamente illustrate – è certo questione di controllo delle informazioni, ma anche di soldi. Per rimanere all’altezza dello stile di vita cui si reputa adatto, Harry deve continuare a produrre contenuti, e l’unica cosa che sa fare – ancorché senza mai un guizzo, un dubbio, un po’ di autoironia – è parlare dei parenti suoi. A ritmi serratissimi: il prossimo agosto uscirà Endgame, il nuovo libro di Omid Scobie – già co-autore della cronaca sostanzialmente autorizzata di cui al primo paragrafo – che promette di «svelare i retroscena su un’istituzione in subbuglio, esponendo il caos, la disfunzione familiare, la sfiducia e le pratiche draconiane che minacciano il suo stesso futuro». È la versione dinastica della sindrome di Stoccolma: per 30 anni si è sentito prigioniero dentro la famiglia, adesso è prigioniero del rimanerne fuori.