Benedetta vuole andare via. Svuotare la sua casa, lasciare tutto. L’appartamento in cui mi accoglie è ancora zeppo di libri e ricordi: «Ma ho già eliminato tanta roba, credimi». Benedetta è Benedetta Barzini, 76 anni, una vita densa che preferirebbe non raccontare. Lo fa suo figlio Beniamino Barrese nel bel documentario La scomparsa di mia madre, adesso al cinema. Il progetto di fuga della protagonista è il pretesto per ripercorrere la sua storia. Questa.
«Sono scappata di casa 14enne, non avevo finito le scuole, soffrivo di anoressia»
Benedetta è un’icona, anche se lei detesta la definizione. È stata la prima italiana ad apparire su Vogue America nel 1963 e sulla cover dell’edizione nostrana 2 anni dopo. Dietro c’è sempre il caso. «Ero a Roma, una giornalista mi vide per strada e mi propose di posare per una foto. Dopo quello scatto, mi chiamarono a New York per 10 giorni: ci rimasi 5 anni. Ne avevo 20 e non sapevo che fare di me stessa. Avevo vissuto in tanti Paesi diversi, ero scappata di casa 14enne, non avevo finito le scuole, soffrivo di anoressia».
Dopo il buio, la luce. «La malattia mi ha costretta a diventare il genitore di me stessa: volevo curarmi, sono andata in terapia. L’America è stata uno sprone a guarire. Qua non avevo identità, lì mi volevano: ho fatto di tutto per non deluderli. Ma senza farmi inghiottire da quel mondo». Quel mondo erano la Factory di Andy Warhol, i viaggi, le feste. «Io ai party non ci andavo, la capa della mia agenzia mi rimproverò: non li organizzava per piacere, ma perché i boss dei grandi marchi conoscessero noi modelle. Mi sentivo un corpo in vendita. Stavo affacciata alla finestra a guardare il mondo fuori: Warhol, Dalí… Tutto bellissimo, ma solo da lontano».
Benedetta era ed è rimasta una ribelle, nel suo ambiente: «Non ho mai inseguito, nel tempo, la faccia che avevo a 20 anni: la maggior parte diventa schiava della chirurgia». Oggi, di tanto in tanto, torna in passerella. «Sfilare è come andare a cavallo: ricordi ogni gesto anche se non lo fai da 30 anni. Mi sento più brava di allora».
«Fin da piccola non volevo salire in aereo prima degli altri o avere la Rolls Royce con l’autista»
Prima di incontrare lo bolla dorata di New York, Benedetta i privilegi li aveva già conosciuti. Il padre Luigi era un famoso inviato del Corriere della sera, la madre Giannalisa era la vedova di Carlo Feltrinelli, imprenditore e banchiere, e madre di Giangiacomo, il fondatore dell’omonima casa editrice ucciso nel 1972. «Non importa la famiglia in cui sei nata, ma ciò che fai di te stesso» riflette oggi. «Tutta la mia vita è stata una grande lezione. Non ricordo gli episodi belli o brutti, tristi o felici, ma ciò che ho appreso».
La prima lezione l’ha imparata da bambina. «Essere nata nel benessere economico m’è servito a capire la pericolosità della ricchezza. Fin da piccola non volevo le cose che vedevo attorno a me: salire sull’aereo prima degli altri, avere la Rolls-Royce con l’autista. Come modella non ho fatto molti soldi: avevo una faccia troppo esotica per gli americani».
«La mia università sono stati i corsi sulla salute delle donne nei dopolavoro delle fabbriche»
Dopo 5 anni di lavoro a New York, Benedetta torna a casa. «E nel curriculum non avevo niente da scrivere!» ride. «Erano nati i gemelli (Caterina e Giacomo, figli del regista Roberto Faenza, ndr), mi dedicavo a loro». Tutto è cambiato grazie alla madre di un loro compagno d’asilo: insegnava sociologia, le propose di coordinare i corsi sulla salute delle donne nei dopolavoro in fabbrica. «È stata la mia università. Qualche anno dopo, un amico professore in una scuola di moda a Urbino mi chiamò per una conferenza. Il direttore mi chiese di tenere un corso intero. Mi sono messa a studiare, non solo la storia della moda ma anche antropologia, m’interessava il significato dietro gli abiti».
Ha continuato a insegnare fino al 2016. Tra le molte vite di Benedetta, anche una breve carriera come giornalista e il sogno di fare la scrittrice: «Ma senza successo: avevo già 40 anni, il mio cognome era ingombrante, e per di più ero un’ex modella. Dunque, per le scuderie editoriali, una scema». In queste parole si legge il suo spirito femminista, che resta intatto: «Ai miei allievi ho provato a offrire modelli alternativi. Uomini che non siano solo forti, donne non sempre dolci».
«Il mio impegno di madre è stato rimediare ai danni che erano stati fatte a me»
Dopo i gemelli, sono arrivati Irene e Beniamino. «Ho cannato entrambi i padri dei miei figli! (il secondo è l’artista Antonio Barrese, ndr)» ride. «Essere madre è un lavoro, e il mio impegno è stato rimediare ai danni che erano stati fatti a me». Benedetta non voleva girare il film di Beniamino, e sullo schermo lo dichiara. «Gliel’ho permesso solo perché ridimensionasse il mito di sua madre. Ce la sta facendo, di questo son felice». Ora vuole solo scomparire. «Vorrei andare in un posto lontano, inesplorato, dove non bisogna comprare tutto. Ma alla mia età fatico a camminare, devo prendere le medicine… E con le sigarette, come faccio?».