Criptico ed enigmatico oggi come 60 anni fa, quando sbarcò a New York per suonare nei locali fumosi del Village, il 24 maggio il Premio Nobel per la letteratura Bob Dylan spegne 80 candeline nella sua villa di Malibù che custodisce da anni, non solo i suoi cimeli, ma tutto il suo genio. Da anni purtroppo, la grave artrite non gli permette di tenere in mano la sua adorata chitarra ma suona ancora perfettamente il pianoforte elettrico. Dylan, almeno nello spirito, è rimasto il “Forever Young” che cantava nel brano ninna-nanna scritto nel 1973 per il primogenito Jesse anche se la sua voce non è più quella di una volta e nell’ultimo album “Rough and Rowdy Ways” – secondo alcuni si tratta di uno dei suoi migliori lavori – uscito in piena pandemia, l’imprevedibile astro della controcultura declama, più che cantare, i versi delle sue canzoni.
Ma Bob Dylan è sempre Bob Dylan e solo a sentir pronunciare il suo nome, tutti i mostri sacri del panorama musicale internazionale, si dicono pronti a “prostrarsi” ai suoi piedi. D’altro canto, non è mai stata l’età a fermare il talento. Soprattutto se parliamo di un uomo tanto carismatico quanto misterioso, un “essere” in bilico tra realtà e leggenda: in oltre sei decenni di successo continuo, Dylan è stato quasi sempre un veggente. E certamente la voce di tre o quattro generazioni che oggi sperano di essere “omaggiati” da un ultimo, indimenticabile, concerto. Magari in streaming.
Il “menestrello di Duluth” era poco più che un ragazzo ventenne quando scrisse “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” e ci vide dentro l’apocalisse: qualcuno pensa ancora oggi che parlasse di un disastro nucleare imminente oppure dell’omicidio Kennedy (che ancora non c’era stato), ma è praticamente impossibile non vederci anche i cataclismi e le tragedie di oggi, che siano climatici o pandemici.
Il cantautore statunitense, durante i suoi 80 anni, ha assunto decine di identità restando però un mito unico e ineguagliabile. Il profeta dei diritti civili, come lo definiscono molti, è nato nel 1941 come Robert Allen Zimmermann per poi trasformarsi in quel Bob Dylan rivoluzionario dall’anima rock che tutti oggi conosciamo e riconosciamo. Grazie a quel nuovo nome è riuscito ad indagare nelle più profonde radici d’America e ad essere, allo stesso tempo, l’ebreo che canta il gospel, il cowboy che va a cantare per il Papa o il Premio Nobel che cita “biblicamente” Moby Dick.
Per tutti, Bob Dylan, tra i suoi 600 capolavori considerati un patrimonio inestimabile, resta quello di “Blowin’ in the Wind“, la canzone più rifatta e ricantata nella storia della musica e originata da un canto degli ex schiavi neri che si erano arruolati nell’esercito yankee ai tempi della Guerra civile. Pensate che l’incisione originale, insieme ad altri 6mila oggetti tra registrazioni, memorabilia, taccuini e abiti, oggi sono raccolti presso il Bob Dylan Archives, in Oklahoma, all’Università di Tulsa, dove è stato costruito il centro mondiale degli studi dylaniani. Difficile in questo caso non farne un vero e proprio “monumento” della musica!