Camila Giorgi è appena entrata nel tabellone principale dell’Emilia-Romagna Open assicurandosi un posto in main draw nel torneo in programma dal 15 al 22 maggio al Tennis Club Parma, in cui si daranno battaglia tra battute e rovesci le stelle del massimo circuito professionistico femminile. Ma a fare notizia non è tanto la giovane marchigiana con la passione per la moda e per la lettura, quanto il padre-allenatore che ha dato di matto dopo la maratona (persa) con la spagnola Sara Sorribes Tormo. In realtà la fama del bad-father precede il signor Sergio di parecchio visto che non è la prima (e non sarà nemmeno l’ultima) sfuriata.
«Mi sono lamentato, ma un uomo non si approfitta di una ragazza: se l’arbitro fosse osse stato un uomo probabilmente avrei fatto di peggio, ma non farei un dramma di quello che è successo» ha dichiarato post match Giorgi dicendosi stupito per tutto il chiasso che si sta facendo sui social riguardo la vicenda. «Vogliamo parlare di quello che succede sui social e di quello che le donne spesso subiscono? Quelli sono atteggiamenti che fanno pena, non quello che avete visto in queste ore. Cosa può fregare alla gente di una protesta durante una partita di tennis?».
Verissimo. In realtà quello che ci si chiede oggi è se un genitore possa essere davvero in grado di allenare i propri figli. Un papà o una mamma riescono ad avere quel giusto distacco per motivare i figli, spronarli e allo stesso tempo prepararli atleticamente attraverso fatica e sacrifici, plasmando uomini e donne in grado di reggere alla pressione emotiva che una gara a livello agonistico comporta? Il più delle volte no. E a rivelarlo è lo psicologo dello sport Romano Costa.
«Lo sport è prima di tutto divertimento e deve rappresentare sempre una scelta personale, fatta anche di emozioni. È sempre molto difficile che, in un ambiente agonistico, un genitore riesca a scindere la personalità, i pensieri e i vissuti emotivi del proprio figlio, da ciò che invece richiede il training mentale tipico dell’allenatore. Come può distaccarsi dal rapporto che esiste con il figlio, al di fuori del campo?».
A complicare il tutto c’è poi il fatto che spesso i genitori-allenatori sono ex atleti, magari con aspirazioni frustrate. Il risultato è di sovrapporre le proprie ambizioni a quelle del figlio, creando uno stato di ansia eccessiva che viene percepita dai ragazzi come un vero e proprio ostacolo alla propria felicità e realizzazione personale. «L’atleta deve capire se si sta allenando per se stesso o per suo padre» chiarisce Costa. «Altrimenti il prezzo da pagare, a un certo punto, diventa troppo alto».
Se quindi il compito di un allenatore deve essere quello di saper insegnare nuove tecniche, regalare entusiasmo e autostima con l’esempio sul campo e comunicare adeguatamente – il rispetto nasce anche dal dimostrare la volontà di ascoltare gli atleti per tirare fuori che cosa hanno dentro – quello di un genitore è invece di aiutare il figlio a sviluppare una sana aspettativa personale, accettando successi e fallimenti che derivano dal praticare uno sport.
Sano e responsabile è stato l’esempio del grande calciatore e allenatore italiano scomparso nel 2016 Cesare Maldini che, quando accompagnò al suo primo allenamento il figlio Paolo (ex difensore storico del Milan oggi dirigente del club rossonero) l’allora allenatore, intimorito dal mito che si ritrovava davanti, chiese: «Dove vuole che lo faccia giocare?». «È lei l’allenatore, io sono solo suo padre». Una risposta che oggi pochi genitori darebbero. Un uomo da cui molti dovrebbero invece prendere esempio.