Chiara Gamberale è tornata. Tornata in libreria, con un nuovo romanzo, “L’isola dell’abbandono” (Feltrinelli). È tornata a interrogarsi sui temi tanto cari ai suoi lettori: il mutamento delle relazioni nel tempo, l’equilibrio tra i bisogni propri e quelli altrui, il confine tra amore e proiezione di sé. Con una novità. Stavolta nel rapporto tra la protagonista Arianna e i suoi uomini si inserisce una variabile imprescindibile: un figlio.
Nel libro si chiama Emanuele, nella realtà la bimba di Chiara è Vita, 2 anni: la piccola meraviglia che le ha ispirato le riflessioni su cosa significhi essere genitori contenute nel romanzo. Un libro nato «dal bisogno di raccontare che accade nei 3 casi in cui perdiamo il controllo della nostra esistenza: quando ci innamoriamo, quando nasce un figlio o quando qualcuno che ci è caro muore. In 10 anni alla mia protagonista capitano tutte e 3 le cose. E ogni volta la vita le chiede di crescere, di abbandonarsi a ciò che è successo. Non è una richiesta facile».
Serve un figlio per essere una famiglia?
«Famiglia è dove famiglia si fa: è sempre stato il mio credo. No, non serve un figlio per essere una famiglia… Anzi, a volte nemmeno basta, per esserlo davvero. La mia protagonista ha un bambino da un uomo, Damiano, con cui però non sarebbe mai andata a convivere se non fosse rimasta incinta. E infatti apre la crisi di coppia e sente il bisogno di tornare su quell’isola dove tanti anni prima aveva incontrato un ragazzo con cui, invece, istintivamente aveva provato il desiderio di costruire una famiglia. Ma non era ancora pronta per autorizzarsi quel desiderio».
Come capisci se fai un figlio per qualcuno o con qualcuno? O se lo fai per per colmare i tuoi vuoti?
«I motivi per cui si fa un figlio sono misteriosi tanto quanto quelli per cui non lo si fa. La linea di confine fra ciò che chiamiamo destino e le nostre scelte è così sottile… La vera differenza, credo, è il modo in cui, una volta che quel figlio viene al mondo, siamo o no disposte ad accoglierlo».
Perché in amore non impariamo dagli errori, ma pensiamo sempre che “stavolta sarà diverso”?
«Forse perché siamo abituati a dare la responsabilità di quello che va storto agli altri. E ci illudiamo che cambiando uomo, lavoro o città risolveremo i guai. Mentre, se non affrontiamo un faccia a faccia con noi stesse, rischiamo di ritrovarci sempre nella stessa situazione. E ogni uomo, città o lavoro saranno sbagliati».
Per fare i conti con se stesse occorre superare quesi meccanismi che nel romanzo chiami Mamma Ossessione e Papà Trauma, in nome dei quali «tutto diventa un riflesso dei nostri alibi».
«Cambiare è vitale, per andare avanti: però è faticoso abbandonare automatismi che ci fanno male, ma sono confortevoli perché li usiamo da una vita. Senza accorgercene siamo tanto prese dai nostri dolori da non essere più disponibili a quello che di bello potrebbe capitarci. Come la mia protagonista, anche io a lungo sono stata così ferita dai tradimenti subìti da chiudermi alla possibilità di un nuovo amore».
Amare un uomo è diverso dall’amare un bambino?
«Si può amare un uomo come fosse nostro figlio. E c’è chi rischia di amare il proprio figlio come fosse un fidanzato. Ma mi pare pericoloso confondere i piani. L’amore per un figlio è un amore assoluto e altruista. Quello per un uomo è, per sua stessa natura, un amore anche un po’ egoista».
Qual è la caratteristica delle coppie che durano? La Costanza, come chiami un tuo personaggio?
«Anche. E poi, nelle coppie che ammiro di più, c’è la capacità di mantenere sempre viva la curiosità per l’altro. Non pensare mai di conoscerlo fino in fondo, essere sempre pronti a cogliere il suo mistero».
A cosa si può rinunciare per un compagno o per un figlio? Tante donne sono solo madri, altre non abbastanza… E così tornano traumi e ossessioni.
«Per un uomo si può rinunciare a tanto, personalmente ho rinunciato a troppo. Ad andare in montagna, per esempio, perché a lui non piaceva. E ho tollerato i tradimenti. Un errore che si commette quando si perde di vista ciò che una è e vuole. Per un figlio forse si potrebbe rinunciare a tutto: ma anche qui è fondamentale rimanere in contatto con se stesse. Non identificarci nell’essere madri, anche se la tentazione è fortissima. Bisogna resistere; più che per noi, per non caricare i nostri figli del peso insopportabile di rappresentare la nostra intera felicità».
→ La rubrica “La posta del cuore” di Chiara Gamberale