«I dream of a world… Sogno un mondo…». Mentre pronuncia queste parole, col suo vestito arancione, gli stivaletti d’oro e le labbra disegnate di rosso cremisi, penso che, sì, la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie è una vera star. Non solo perché il discorso con cui ha inaugurato il Salone del Libro di Torino ha la forza di un messaggio politico che vuole mostrarci come potremmo cambiare la storia, ma anche per come riesce a strappare gli applausi dei tantissimi che sono venuti a sentirla. Parla di disuguaglianze e gender gap, di violenza domestica e povertà, di condivisione e inclusione, di empatia e libri. Racconta di un taxista che le chiede quale lavoro faccia e poi le dice che non leggerà i suoi romanzi perché scritti da una donna, nera, e quindi poco interessanti.

Il suo discorso è un’esplosione di idee, di possibilità. «Sogno un mondo post Covid che abbia capito che da soli non si va da nessuna parte, che per stare bene serve che anche gli altri stiano bene. Un mondo che sia meno me-me-me ma più noi-noi-noi» dice. Il discorso di Torino è una dimostrazione di quanto il pensiero di questa donna sia potente e universale nella sua semplicità. E di quanto lei sia capace di richiamare l’attenzione su quello che ci succede intorno e che tante volte non riusciamo ad afferrare, soprattutto dopo che la pandemia ci ha resi un po’ più ciechi e un po’ più soli. Lei vede e sogna. Merito della letteratura, confida: «Il mio più grande amore, la lente con cui guardo il mondo».

«Dovremmo essere tutti femministi»

Se andate su Google e digitate Chimamanda Ngozi Adichie (ma basta anche Chimamanda), scoprirete che Time l’ha inserita tra le 100 persone più influenti del mondo e Fortune tra i 50 più grandi leader, e che per Barack Obama è fra i migliori scrittori contemporanei. Non solo è una grandissima autrice che ha ricevuto premi e riconoscimenti per i romanzi L’ibisco viola, Metà di un sole giallo, Americanah (tutti pubblicati in Italia da Einaudi). È da tempo un punto di riferimento per le donne di tutto il mondo grazie a un Ted Talk da milioni e milioni di visualizzazioni intitolato Dovremmo essere tutti femministi, in cui ci siamo riconosciute in tante (e diventato anche questo un libro di successo). Diceva che la creatività, l’innovazione e l’intelligenza non dipendono dagli ormoni. Che saremmo tutti più felici se fossimo più liberi di essere chi siamo veramente senza le aspettative legate al genere. La frase “Dovremmo essere tutti femministi” è apparsa poi sulle T-shirt di Dior. E perfino Beyoncé l’ha “campionata” in una delle sue canzoni.

Puoi vedere il Ted Talk qui:

L’ultimo libro di Chimamanda

Il suo ultimo libro si intitola Appunti sul dolore, Chimamanda l’ha scritto all’indomani della morte del padre. Sono ricordi e riflessioni su cosa significa perdere una persona amata. Un volume di poche pagine ma di una intensità incredibile, che è solo l’ennesimo capitolo della vita di una donna che ha saputo dare voce a tante altre donne. La ferita è ancora aperta.

«Di questo preferisco non parlare» mi dice a pranzo in un ristorante dove mi ha dato appuntamento per l’intervista. Mi spiega però che la morte dei suoi genitori (la madre è scomparsa l’anno dopo) l’ha cambiata per sempre: «Ho avvertito una maggiore pressione, ma ne sto uscendo più determinata perché non sai cosa può riservarti la vita e quindi vorrei viverla esattamente come desidero».

Tra le urgenze, per lei, c’è la disuguaglianza: «Il capitalismo di oggi si focalizza solo sul profitto. Ma la mia domanda è: non siamo già cresciuti abbastanza? Per me occorre riformulare il sistema: se le grandi aziende pagassero di più i dipendenti e investissero di più in ciò che fanno, la qualità dei prodotti migliorerebbe e loro guadagnerebbero forse anche di più». Cita Facebook, gli algoritmi e le generazioni di oggi, «veloci nel pontificare su cosa è giusto o sbagliato, ma non altrettanto rapide nel capire cosa è vero e cosa è falso». Forse è un’utopia «ma è il pensiero radicale che porta ai cambiamenti. La storia ce lo insegna».

Un femminismo molto concreto e poco ideologico

Il femminismo c’è sempre, in lei, ma è molto concreto e poco ideologico. E non passa necessariamente attraverso i grandi saggi e gli studi di genere. «Credo che leggere Il secondo sesso di Simone de Beauvoir sia importante ma non necessario. È invece più importante che le giovani donne inizino a pensare al femminismo come qualcosa che riguarda le loro vite, non quello che leggono. Io sono stata una femminista molto tempo prima che conoscessi la parola. Mia nonna lo era perché decise che era una persona che andava presa in considerazione e voleva respingere una cultura che cercava di soffocarla. C’è un femminismo che non mi riguarda perché teorico e lontano dalla vera vita delle donne e dai loro problemi. Io sono una scrittrice, non mi interessa la teoria. Quando incontro le donne voglio conoscere le loro vite. Per esempio: cosa significa essere una donna in Italia o in Islanda? Spesso i problemi sono gli stessi».

Forse la cifra che ha reso Chimamanda così famosa è la capacità di raccontare attraverso la sua vita quella di tutte noi, di descrivere pochi momenti ma significativi, di farci visualizzare e provare cos’è una ingiustizia. La possibilità di comprendere quali sono i percorsi di una donna al di là del colore della pelle, di ciò che fa o di dove vive.

Il sessismo secondo Chimamanda

Quando parla di sessismo, però, Chimamanda si sente sola. «Se racconto di discriminazioni, di episodi che ho vissuto o che mi sono stati confidati, sia alcune donne sia alcuni uomini mi rispondono: “Ma sei sicura?” “È sessismo?”, “Ma dai, non è così serio”. Oppure mi dicono che sono troppo sensibile. È terribile doversi sempre giustificare». La rivoluzione è stata il movimento del #MeToo: «Raccontando le loro storie, le donne hanno fatto cambiare certi comportamenti agli uomini, hanno creato consapevolezza e conoscenza. Ovviamente non è la soluzione a tutti i problemi, ma può fare la differenza».


«Se gli uomini leggessero più libri scritti da donne, comprenderebbero meglio chi siamo e cosa proviamo»


Se poi gli uomini leggessero più libri scritti da donne, insiste, «comprenderebbero meglio chi siamo e cosa proviamo». Le ricordo che quando ha scritto all’amica Ijeawele i 15 consigli per crescere una bambina femminista, lei non era ancora madre. Ora lo è, di una bimba di 6 anni, a cui prima di sederci a tavola faceva le faccette in videochiamata sul cellulare. «Da quando mia figlia è nata mi sono resa conto che è difficile seguire quei consigli. In più il mondo non ti aiuta. Perfino in cose semplici come i colori. Io e mio marito non volevamo certo crescere un “mostro” vestito di rosa, ma è davvero difficile trovare altri colori che siano carini per una bimba. Per il resto, io sono contenta perché il padre è molto presente e lei sta imparando che i lavori domestici non sono prerogativa delle donne. E poi la sto incoraggiando a parlare, a esprimere i suoi pensieri. Ad avere una voce. “È già sulla buona strada” mi diceva mia madre. “Chissà da chi avrà preso…”».

Chimamanda Ngozi Adichie in libreria

Appunti sul dolore (Einaudi, traduzione di Susanna Basso) è stato scritto da Chimamanda Ngozi Adichie all’indomani della morte del padre. Un lutto gravato dal fatto che è avvenuto in piena pandemia, nel 2020, mentre l’autrice era lontana, negli Stati Uniti. Un dolore violento che viene raccontato in tutta la sua crudeltà e dimensione, anche fisica. E che lascia dietro sé la consapevolezza della precarietà e l’incertezza.