Un viaggio avventuroso con le figlie di 6 e 9 anni. Tra imprevisti da affrontare e chiacchiere illuminanti è nato il libro “Come se tu non fossi femmina” (Libri Mondadori) di Annalisa Monfreda, direttrice di Donna Moderna, 50 lezioni su come crescere una bambina oggi. Ne ha parlato in diretta Facebook martedì 8 maggio alle 13, con Cristina Fogazzi, Francesca Magni, Francesca Valla. Guarda il video.
Quando rimasi incinta, il nome del nascituro era uno degli argomenti ricorrenti durante le cene con gli amici. «Se sarà maschio lo chiameremo Arturo» dicevo. Un corrispettivo al femminile non c’era: ero certa di avere in grembo una bambina e temevo di sottoporre al giudizio altrui il nome che iniziava a formarsi nell’intimità della discussione con mio marito. La mia segreta convinzione non corrispondeva a un desiderio, ma a una constatazione: nella mia famiglia non c’erano state altro che femmine. Quel dato di fatto non era motivo di preoccupazione.
Non mi sono mai posta il problema di come crescere una figlia femmina
Giunti alla mia generazione, oltre a essere un destino inesorabile, il nostro fare figlie femmine era una bandiera che sventolava con orgoglio. Non è sempre stato così. Quarant’anni fa Elena Gianini Belotti raccontava che «innumerevoli sono le donne che, alla nascita di una femmina, hanno sopportato l’umiliazione di sentirsi rinfacciare l’incapacità di generare figli maschi». La mia bisnonna era una di queste. Si chiamava Elisabetta, detta Bettina, come mia madre, e un’infinita serie di cugine di mia madre. Generò, una dopo l’altra, a cavallo della prima guerra mondiale, ben 5 femmine. Che crebbe quasi interamente da sola, visto che suo marito prima andò in America a costruire strade ferrate per sanare un debito contratto da suo padre e salvare l’onore della famiglia, poi partì in guerra. Nonna Bettina è l’archetipo di donna della mia famiglia, una femminista inconsapevole. Alle cognate, che si rammaricavano con lei per l’avverso destino di generare solo femmine, pronunciò la frase che ho sentito ripetere da generazioni di donne che, dopo di lei, nella nostra famiglia hanno attaccato nastri rosa alla porta: «Il Signore manda le femmine a chi le sa crescere». Una figlia, a quei tempi, era considerata una cambiale: bisognava procurarle una dote, tanto più grossa quanto minore era la sua avvenenza.
Nonna Bettina si rifiutava di arrendersi a questa idea
Non c’era nulla che una donna non potesse fare. Lei tesseva, leggeva e scriveva con scioltezza esercitandosi sulle Sacre Scritture. Andava in campagna e comandava braccianti uomini, facendosi rispettare. La sua severità e le sue battute fulminanti divennero leggendarie. Era un’ape regina. Che ha generato altre api regine, non figlie annichilite dalla sua personalità ma donne forti, capaci di tener testa a ogni sorta di uomini. E per gli uomini era una fortuna incappare in una donna della nostra famiglia, non il contrario. «Galeotto, te la sei scelta bene» disse minacciosa nonna Bettina a mio padre, quando le fu presentato ufficialmente come fidanzato di mia madre. Ben presto lui capì il senso di quelle parole, divenendo uno dei più grandi ammiratori della progenie femminile da cui discendeva la sua giovane moglie. Uscendo dalla sala parto dove io ero appena venuta alla luce, seconda a mia sorella, il ginecologo scosse la testa con un’espressione di indecifrabile delusione e balbettò qualcosa come: «Mi dispiace». Mio padre raggelò. «Un’altra femmina» disse rammaricato il medico. Non poteva immaginare che, per mio padre, quella fosse una splendida notizia. E non solo perché seguiva allo sgomento che qualcosa fosse andato storto nel parto. Ma perché lui era ormai convinto che le femmine generate in questa famiglia fossero quanto di meglio sul mercato della genitorialità. E soprattutto perché, anche stavolta, l’aveva scampata: non sarebbe stato costretto a giocare a pallone. E così sono cresciuta, in mezzo a una schiera di cugine, con riunioni di famiglia enormi in cui tutte le varianti di Bettina erano racchiuse in una stanza – Isuccia, Elisa, Isabella, Lisetta – nell’assoluta convinzione che non ci fosse nulla di diverso tra un maschio e una femmina. Mai una battaglia, mai un discorso, mai una rivendicazione femminista sfiorò quei contesti. Mai un libro di Erica Jong o di Germaine Greer circolò in quei salotti. Il femminismo inconsapevole si alimentava della sua stessa epopea, dei suoi stessi racconti. Alcuni drammatici, come la zia a cui morì il figlio di 1 anno in ospedale e pur di non lasciarlo lì, sul marmo freddo e circondato da estranei, scappò col piccolo senza vita tra le braccia, prese un passaggio da un camionista e tornò al paese, tenendo testa al dolore che cercava di sgorgare da ogni anfratto e alle domande inquisitorie del camionista. Altri racconti erano più allegri, come quelli che riguardavano mia nonna, che si sposò con un abito ricavato dalla seta di un paracadute americano e che gestiva assieme al marito il Bar Italia, al centro del paese, fronteggiando ubriachi e violenti con furbizia e scioltezza di parola.
Come se tu non fossi femmina (Mondadori) di Annalisa Monfreda ha per sottotitolo “Appunti per crescere una figlia”. Si ispira dagli Appunti che il nostro direttore scrive ogni settimana su Donna Moderna. Parlando spesso dell’evoluzione del ruolo della donna.