Basta poco per capire che Andrea è così, di una dolcezza disarmante, delicato come i gesti delle mani che fa mentre parla. È velatamente in imbarazzo. Non tanto per quello che mi racconta – «Da quando lo sa la mia famiglia, per me non è più un problema» – quanto perché stare davanti alla telecamera non è il massimo per lui, nonostante lavori nella comunicazione. Andrea Serafini, 32 anni, milanese, e altri 3 ragazzi sono i protagonisti di un bellissimo progetto in cui raccontano i loro coming out.
Il progetto Coming Out
Il progetto Coming Out è stato realizzato dalla casa editrice SEM (Società Editrice Milanese). Nel progetto 4 ragazzi, tra cui Andrea Serafini, parlano in un video-racconto dei loro coming out. Perché, anche se il mondo cambia, quel momento fa ancora paura. Puoi vederlo su Youtube o su Instagram (@semlibri). Tutto nasce dal romanzo La lingua perduta delle gru dell’autore americano David Leavitt, appena ripubblicato proprio da SEM con una nuova traduzione di Fabio Cremonesi. Il libro del 1986 racconta la storia di un giovane ragazzo gay che rivela la propria omosessualità ai familiari e ha contribuito a cambiare la vita di molte persone.
Il coming out fa ancora paura
Nonostante il mondo sia andato avanti, nonostante alcuni tabù sulla sessualità siano caduti, nonostante i modelli, le sfaccettature in cui riconoscersi e raccontarsi siano aumentati, il coming out fa ancora paura. E Andrea, senza vergogna, non lo nasconde. «Dentro di me sapevo che sarebbe andata bene. Ma la paura era tanta. Soprattutto perché in quel momento ti metti completamente a nudo». E se ti metti a nudo in teoria diventi più fragile, più vulnerabile, più a tiro degli sguardi e dei giudizi altrui. Ma – sembrerà strano – non è così. Perché, come nella favola più bella, è proprio nel momento in cui sei più “scoperto” che diventi più forte. Andrea, che quella paura e quella magnifica sensazione di essere finalmente se stesso le ha provate, lo sa bene. E ce lo racconta, liberamente.
Intervista ad Andrea Serafini
Quando ha capito di essere omosessuale?
«Ancora oggi non ho veramente la percezione del momento in cui ne ho preso coscienza. Al liceo vedevo che i miei amici si fidanzavano. Mi fidanzavo anche io ma, a differenza loro, non riuscivo a costruire un rapporto con le ragazze».
È stata una sofferenza?
«Sono stati anni in cui le relazioni erano difficili, faticose. Odiavo giocare a pallone e stavo sempre con le mie amiche. E i miei compagni di classe mi dicevano: “Ti comporti da gay”. Ma io non capivo. “Come mi comporto da gay? Sto sempre con le ragazze!”».
Poi cosa è successo?
«Più di 10 anni fa mi sono iscritto su Facebook con un profilo fake e ho iniziato a frequentare diversi gruppi legati all’omosessualità. E a poco a poco ho cominciato a conoscere dal vivo alcuni di questi ragazzi gay. Anche se per me quel momento era una fase di scoperta, di non accettazione. Da un lato volevo sapere, volevo capire, capirmi, ma al tempo stesso volevo rimanere l’Andrea che ero certo di essere. Non volevo esplorarmi».
Anche in quella situazione aveva paura?
«No, in quel caso non ero spaventato. Ero confuso, non volevo essere diverso. Quando incontravo questi ragazzi da un lato ero contento, ma dall’altro sentivo di fare una cosa sbagliata. Quando chattavo ero libero, ero me stesso, ma quando poi ci vedevamo di persona alzavo un muro, per me era uno shock. Non mi accettavo».
Quando ha iniziato ad accettare la sua omosessualità?
«Con la prima relazione stabile, a 21 anni circa. In quel momento mi sentivo quasi me stesso».Perché quasi e non del tutto? «Mancava ancora l’ultimo pezzo di puzzle della mia vita. Che ho aggiunto quando ho fatto coming out».Me lo racconta? «Ero stato lasciato dal mio fidanzato di allora e stavo male. Prima che ai miei, ho deciso di dirlo ai miei zii che, da quando mamma e papà si sono separati, sono la mia seconda famiglia. E loro mi hanno consigliato di parlare liberamente. La sera stessa ero a casa di mia mamma, le ho fatto leggere un messaggio che mi aveva mandato mio zio in cui diceva di vivere la mia vita. Ero convinto che lei avrebbe capito. Ma non è stato così. Allora sono scoppiato a piangere e le ho detto: “Mi sono lasciato. E lui lo conosci”. Questo è stato il mio primo momento rivelatorio. Poi è toccato a papà».
E come è andata?
«Avevo più ansia. Non perché pensavo non mi avrebbe capito, ma perché affrontare con lui i temi della sessualità mi metteva a disagio. Però mi sbagliavo. È stata una questione di pochi secondi. Gli ho detto: “Papà, ti devo parlare”. E lui mi ha risposto: “Aspettavo solo che me lo dicessi”. E poi abbiamo iniziato a raccontarci. Ricordo che c’era qualcosa sul fuoco in cucina ed è bruciato». E come si è sentito? «Al momento non ho realizzato. Non ho subito provato quella leggerezza che provo adesso. Erano troppe le emozioni. Poi mi sono sentito completo, forte, a mio agio, finalmente libero, me stesso. Per essere accettata la mia omosessualità doveva essere sdoganata. Perché quando nascondi qualcosa non puoi essere davvero te stesso».
Come mai ha scelto un momento di dolore per dirlo?
«Avevo bisogno di essere capito. Avevo bisogno della mamma. Di essere consolato. E perché lei potesse farlo, dovevo mettermi a nudo, dovevo farle vedere realmente com’ero, chi ero. L’Andrea che conosceva prima era un Andrea solo a metà».
Perché ha deciso di partecipare a questo progetto?
«In qualche modo è stato un’altra forma di coming out. Ho voluto mettermi nuovamente a nudo, mostrare le mie fragilità per essere di aiuto agli altri. Perché la gente fa fatica a capire. E i ragazzi come me hanno ancora paura a parlarne. Credo di essere riuscito nel mio intento visto che sotto il mio post su Instagram sono molti i “grazie” che ho ricevuto».