Ha esordito come estetista 11 anni fa. Si è autoproclamata “cinica” quando ha iniziato a fare ciò che nessuno osava nel suo settore: dire la verità su creme e trattamenti. Ha dunque prodotto una linea cosmetica che in 5 anni è passata da 30.000 euro a 26 milioni di fatturato. Se seguite Cristina Fogazzi (alias Estetista Cinica), durante il lockdown l’avete vista più dei vostri coinquilini. In diretta Instagram, ha frugato nel beauty case di Alessandro Cattelan, ha rimproverato Nicola Savino di lavarsi il corpo con lo shampoo, ha intervistato i virologi con più competenza di molti giornalisti e dato lezioni di comunicazione ai sindaci. 

Cristina, ti prepari a un futuro da consulente politica? 

«Io vivo a Brescia. Non so se tu conosci qualcuno che è morto per Covid. Io almeno 10. Quattro dei quali erano padri di persone del mio team. Eravamo chiusi in casa, con l’elicottero che rombava in cielo, le ambulanze che sfrecciavano per le strade vuote, la gente che si ammalava attorno, gli ospedali che non rispondevano, le mascherine che… ho dovuto dargliele io alla mia dottoressa di famiglia. Secondo me un sindaco ha la responsabilità della sua cittadinanza. E anche se non è abituato a usare i social, deve farsi sentire. Così al sindaco di Brescia ho detto di smetterla con i video-comizi elettorali: doveva essere autentico come Vincenzo De Luca». 

L’avrà presa bene. E al sindaco di Milano cosa hai detto? 

«Che non può aprire bocca solo per prendersela con i ragazzi che escono sui Navigli. I tamponi non ci sono ancora, del tracciamento neppure l’ombra e le uniche parole che pronuncia sono un attacco ai cittadini? Mi ha telefonato perché con i messaggini non ci sa fare. E ci siamo chiariti».

La tua comunicazione aveva una missione sociale? 

«Mi piacerebbe dirti che è così. Ma la verità è che serviva a prevenire i miei attacchi di panico. Ero venuta in contatto con gente ammalatasi di Covid. Mi misuravo la febbre e la saturazione 80 volte al giorno. Intanto facevo dirette Instagram».

E fatturavi cifre da capogiro: 13 milioni di euro in 3 mesi. Più del doppio dell’anno scorso. Come te lo spieghi?

«Durante la quarantena, tutti abbiamo comprato online per avere un’illusione di normalità. Ricevere un trapano o una grattugia significava che il mondo continuava a girare fuori dalla nostra porta. Così è stato per le mie creme, immagino». 

Quando te ne sei accorta, però, invece di spingere il tuo business, hai promosso le piccole attività di quartiere.

«Ho pensato che Jeff Bezos (patron di Amazon, ndr) non aveva bisogno dei nostri soldi. E le mie creme si vendevano comunque. Quindi ho cercato di aiutare il negozio storico di giocattoli vicino casa e tante altre botteghe della mia città. Per loro10 ordini online fanno la differenza. E noi come consumatori, anche in futuro, dovremo tenerlo ben a mente».

Potresti vivere in un attico a Milano, invece continui ad abitare a Brescia. 

«Io vengo da Sarezzo, un paese della provincia. Ero la figlia della Rosy. Che a 42 anni, a causa del fallimento di mio padre e del pignoramento della casa, si era messa a fare l’operaia in un’azienda che tranciava ottone. Brescia mi è sempre sembrata New York. Anche se ne sono rimasta ai margini: alle feste “giuste” non mi invitavano allora e non mi invitano adesso. Credo che lo metterò nel c.v.». 

Perché ci rimani? 

«Perché qui ci sono i miei amici. E qui si trova la parte produttiva della mia azienda. Le creme le fanno in Valcamonica, i gadget a Pompiano, il sito a Desenzano. I bresciani hanno la concretezza di chi si sporca le mani. Se a Milano vuoi mettere in piedi un e-commerce, vai dall’agenzia, ti studiano il mood, e dopo decine di call, tra un anno ce l’hai. A Desenzano, in un mese è pronto».

Dalla maturità classica al centro estetico: un percorso insolito, il tuo. 

«Mi ero iscritta all’università, ma per le traversie economiche di mio papà ho iniziato a lavorare. Ho gestito negozi per anni, finché mi hanno assunto in un centro estetico per fare la venditrice. Sono stata formata al metodo: “Eh, ma che brutte smagliature”. Lo odiavo. Ho avuto un momento di crisi di coscienza. Poi ho capito che dovevo trovare un modo mio per vendere. Così ho cominciato a studiare tantissimo. Avevo un chirurgo plastico che mi passava libri, paper, ricerche. Sono diventata un pozzo di scienza». 

E vendevi? 

«Macché. La proprietaria del centro mi diceva che ero “povera dentro”: avendo sempre avuto pochi soldi, non riuscivo a farne spendere abbastanza alle persone. Ma ero molto preparata. Così mi ha spostato a far formazione alle estetiste. Poco dopo, però, ha chiuso quel ramo di azienda e mi ha lasciato a casa. Avevo 35 anni». 

Licenziata, con il fallimento di tuo padre alle spalle, diventi imprenditrice. 

«Ricordo ancora il primo studio con 4 cabine, i brividi alle prime rate del mutuo, gli stipendi pagati in ritardo chiedendo alle ragazze di fidarsi di me…». 

C’è stato un momento in cui hai temuto di non farcela? 

«No, di non farcela no. Ma di non vedere uno sbocco sì. Sapevo di essere brava, ma non capivo come crescere». 

Finalmente, però, eri libera di parlare di bellezza come volevi. 

«Facevamo l’opposto di ciò che detta il business dell’estetica. Accoglievamo le clienti senza farle sentire inadeguate o in colpa per i loro inestetismi. Al tempo stesso dicevamo la verità sull’efficacia dei trattamenti. E funzionava. Poi que- sto modo di comunicare l’ho messo in Rete: è nato il blog dell’Estetista Cinica, ma senza intento di fare soldi. Anzi, mi sentivo in colpa perché rubava tempo al lavoro». 

La svolta è arrivata quando hai iniziato a produrre creme. 

«Non ci credevo molto. Ho comprato il primo lotto di 30 confezioni per tipo. Attaccavamo le etichette a casa». 

Oggi sei un’imprenditrice da manuale. Sei anche una donna felice? 

«Sì, anche se inizio a patire il mezzo che ha contribuito al mio successo: i social network hanno una doppia valenza. Più la popolarità cresce, più diventa diffcile da gestire. Essere sempre fermata, osservata, attaccata… Non mi turbano le critiche al mio aspetto fisico. Ma quando attaccano le persone che lavorano con me, è la fine». 

Che capo sei per i tuoi 36 dipendenti? 

«Non ho figli, non li ho mai voluti, non mi interessa accumulare. Ma voglio che chi lavora con me sia nelle condizioni di vivere nel benessere. Ho visto mia madre tornare a casa piena di bruciature provocate dai pezzettini di metallo incandescenti. Ho visto i suoi colleghi diventare sordi. Io, anche in questa situazione, ho tolto le mie estetiste dalla cassa integrazione, ho fatto un’assicurazione Covid aggiuntiva e sto pianificando premi». 

Il futuro come lo vedi? 

«Ti racconto una storia. Quando Ignazio, il responsabile della logistica, ha cominciato a fare i primi 30 pacchettini per me, aveva un Mail Boxes alla stazione di Sarzana grande la metà del mio soggiorno. Adesso gira in Range Rover e sta cercando il terzo magazzino. Tutti i consulenti del mondo mi hanno detto che devo cambiarlo, che non posso avere la logistica a Sarzana. Allo stesso modo mi hanno detto che non posso avere un unico fornitore di creme. Ma le mie creme le fa Mariagrazia. Per il Black Friday, lei e il suo team hanno dormito per una settimana in fabbrica, pur di aumentare la produzione. Non so se ho reso l’idea. Questa non è solo la mia azienda, è la mia storia. E l’ho scritta con queste persone».

Quindi, quello che fai è contro ogni regola dell’imprenditoria. 

«Così pare. Ma se per diventare un certo tipo di imprenditrice mi si chiede di tradire la persona che ho scelto di essere, non mi sta bene. Rimarrò un’imprenditorina. Intanto, però, sono stata sulla copertina di Donna Moderna». 


Guida cinica alla cellulite, il libro dell’Estetista cinica

Scritto da Cristina Fogazzi e dal doc Enrico Motta, “Guida cinica alla cellulite” è stato appena ristampato negli Oscar Mondadori. Per usare le parole di Cristina, è «una storia che comincia sotto la pelle delle nostre cosce, dove incontriamo un sistema perfettamente organizzato per rovinare le nostre vacanze a Formentera». Al suo interno, i segreti per combattere la cellulite che nessuno ci ha mai detto e i test di autovalutazione per riconoscere lo stadio della nostra buccia d’arancia (e di quella della vicina d’ombrellone!). Un cult, insomma.