La voce carica d’intensità e di sfumature. Il dolore che filtra sottile fra le pieghe del glamour. La depressione accecata e resa innocua dai riflettori, ma pronta a dibattersi feroce un istante dopo la chiusura del sipario. I modi amabili, capaci di avvolgere nella gentilezza un carattere indipendente e volitivo. L’infinito rispetto per un pubblico che l’ha osannata e ripagata di molte bruciature esistenziali. E una vertigine di dischi venduti, oltre 170 milioni. Se un giovane volesse avvicinarsi oggi, a quasi trent’anni dalla morte, alla figura di Yolanda Gigliotti, in arte Dalida, si potrebbe partire da qui. Ma sarebbe solo l’inizio, appunto.
Nascita di una stella: Dalida
I primi vagiti della cantante vibrano il 17 gennaio 1933 in una casa di Choubrah, alle porte del Cairo. I genitori sono italiani emigrati dalla Calabria che, dalla lingua alla cultura musicale, imprimeranno ai tre figli un indissolubile legame con il Bel Paese. Il padre, Pietro Gigliotti, è primo violino all’Opera della capitale egiziana. L’infanzia di Iolanda (all’epoca ancora con la “I”, che diventerà “Y” nella trascrizione francese) trascorre tranquilla, anche se, secondo alcune fonti, in parte turbata dall’ironia che il suo leggero strabismo suscita nelle amichette. In questi anni si crea il rapporto di simbiosi profonda, quasi una sovrapposizione identitaria, con il fratello più piccolo, Orlando, che diventerà il suo manager e ancora oggi ne custodisce la memoria.
Ben presto, l’animo aperto e comunicativo della giovane l’indirizza verso il sottile piacere di intrattenere: come un piccolo animale notturno ansioso di brillare nel buio, s’iscrive a diversi concorsi che rendono già giustizia alla sua presenza scenica. Fino a quando, nel 1954, partecipa ventunenne a Miss Egitto. E vince il titolo. È l’inizio di un altro percorso, inizialmente osteggiato dai genitori, ma sempre caparbiamente perseguito dall’interessata: quello di attrice. Le pare il più promettente e sicuro per esprimere le sue qualità artistiche. Di contrappunto, però, si renderà inevitabile lo strappo con l’Egitto e il trasferimento in Francia, a Parigi.
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La musica e il successo esplosivo
Gli inizi non sono semplici. Occorrono due anni prima che la bella miss si affranchi dal ruolo di curiosità esotica per borghesi annoiati: i capelli corvini, il viso dai tratti decisi e l’accento marcato (che resterà una sua caratteristica per tutta la carriera) rischiano di bollarla quale novità destinata a durare poche stagioni. Neppure la decisione di vestire la propria ambizione con uno squillante nome d’arte, ispirato al film Sansone e Dalila del 1949, sembra portarle troppa fortuna. Stravolge tutto, nel 1956, l’incontro con Julien Morisse, all’epoca a capo dell’emittente radiofonica Europe 1: l’uomo s’innamora di lei e le propone di cantare Bambino, versione francese di Guaglione, strappando il pezzo a un’altra artista.
Dalida ha già inciso un altro disco, quasi senza riscontro, e non è sicura che la sua voce sia lo strumento giusto penetrare in quel mondo dello spettacolo che tanto anela. L’enorme successo del brano, lanciato il 28 dicembre di quell’anno, annienta invece ogni incertezza e disegna il futuro della neonata star. Nel periodo immediatamente successivo, una prorompente girandola di pezzi indovinati scandisce l’ascesa alla popolarità: anche in Italia divengono noti, per esempio, Milord, I ragazzi del Pireo, Piccolissima serenata e molti altri. L’apprezzamento è tale che, nel 1964, l’interprete diventa la prima donna a vincere un disco di platino.
L’amore che non concede pace
Nel frattempo la relazione con Morisse ha attraversato una costante evoluzione (ostacolata anche dal fatto che l’uomo fosse sposato) e una brusca sfioritura: quando finalmente i due si sposano, nel 1961, il matrimonio dura un solo mese, perché Dalida ha conosciuto l’attore Jean Sobieski e se ne è innamorata. Costruendo, però, un legame che resisterà poco. Così, mentre per tutti gli anni Sessanta i titoli da hit parade si moltiplicano (nel nostro Paese ottengono grande risalto, fra le altre, La Danza di Zorba, Darla dirladada e Oh lady Mary, in Francia incalzano sia gli inediti, sia le reinterpretazioni), la vita sentimentale dell’artista si scioglie progressivamente in storie fallite, drammi morali e durezze emotive.
Nel 1967 assiste impotente al suicidio di Luigi Tenco al festival di Sanremo: una tragedia che la toccherà al punto da indurla, un mese dopo, a tentare lei stessa di togliersi la vita. Riavutasi dalla violenza dello shock, Dalida intesse una relazione con un giovane italiano, Lucio, che ha solo ventidue anni, contro i suoi trentaquattro: quando si accorge di essere incinta, la differenza d’età le torna addosso come un macigno e decide di abortire. L’intervento, però, le impedirà per sempre di avere figli, sconvolgendone ulteriormente gli equilibri affettivi. Nel 1970, benché la carriera artistica continui a volare alto, le giunge inaspettata anche la notizia del suicidio del suo antico pigmalione, Lucien Morisse.
La svolta filosofica e il tragico epilogo
Dall’inizio degli anni Settanta, la forza interpretativa della cantante assume nuovi registri, più intimistici: accanto alle proposte in stile “disco music”, di grandissimo successo, compaiono brani più elaborati e profondi, talvolta firmati da rinomati intellettuali, sempre cantati con raro trasporto, in una miscela di grazia e dolore che incanta il pubblico. La percezione di Dalida comincia a mutare: la brava esecutrice di musica leggera si trasforma in una donna vissuta, maltrattata dagli eventi, che porta sul palco sfumature interiori complesse e le condivide con il suo seguito. Anche nel suo privato, come testimonieranno gli amici, compaiono letture teologiche e testi di psicanalisi.
Dal 1972 al 1981 sarà la volta di un’altra relazione funesta, quella intrattenuta con l’antiquario Richard Chanfray, che sostiene di essere la reincarnazione del Conte di Saint-Germain vissuto nel Settecento e morirà, anch’egli suicida, nel 1983. Dalida ha ormai cinquant’anni, è amatissima ma profondamente irrisolta, si confronta con un’agenda piena e un’emotività sempre più vuota. Tenta forse di ricostruirsi un’equilibrio tornando alle origini, in Egitto, per girare il film Le sixième jour in cui appare senza trucco e in un ruolo drammatico, però il contatto con il passato la scuote ancor di più. Il 3 maggio 1987, al termine di un periodo di rare apparizioni pubbliche, verrà trovata senza vita nella sua grande casa parigina di Montmarte.
Oggi, a quasi trent’anni di distanza, l’affetto che moltissimi fan le tributano assume quasi i toni della venerazione e giustifica pienamente lo sfrigolio mediatico intorno all’ultimo biopic, che l’11 gennaio è stato lanciato in ben 500 cinema in tutta la Francia. Perché se è comune che il dolore attiri, specie quando attanaglia i famosi, ciò che colpisce è il rispetto empatico con cui molti ancora trattano l’animo volitivo e tormentato di questa icona, le sue traversie che spaventano e commuovono, insegnano e (talvolta) anestetizzano. Il film, Dalida, arriva il 15 febbraio su Rai 1.