Non capita tutti i giorni di ricevere lezioni di zen da un’icona della Gen Z come Damiano Gavino, classe 2001 e amatissima star di Un Professore. Anche se siamo nella stessa città ci separano i chilometri (e uno sciopero mezzi particolarmente fetente), quindi optiamo per un incontro virtuale. Ma anche al di là di uno schermo, a pochi giorni dal suo secondo approdo sul grande schermo – sarà il protagonista di Prophecy (al cinema 24, 25 e 26 marzo) – lui è fresco come una rosa.
È già sul set della terza stagione della fortunata serie Rai, mentre conta i secondi che lo separano dal debutto come protagonista sul grande schermo. «Spero che in tanti andranno al cinema, l’esperienza della visione in sala non è paragonabile a nient’altro», confessa speranzoso ma entusiasta. Trasuda da questa semplice frase tutta la sua passione per quest’arte ancora precaria e sofferente, che premia chi ci mette il cuore senza volere nulla in cambio. E bastano poche battute per convincere anche me che lui di cuore ne ha tanto, ma la sua arma più potente è la “Santa Pazienza”.
Intervista a Damiano Gavino: sul set di Prophecy

Prophecy uscirà tra pochissimo, com’è stata l’esperienza sul set?
«Ci siamo divertiti molto ed è stata un’occasione unica. Abbiamo girato tutto in tempi ristrettissimi, poco più di 20 giorni, e per me che sono abituato a serie di quasi sei mesi è incredibile. Poi, essendo ambientato a Torino, ho avuto la possibilità di conoscere la città».
Il film si ispira a un noto fumetto giapponese, ma è rivisitato e “italianizzato”. Com’è stato il tuo approccio alla storia originale?
«Siamo stati tutti molto guidati dal regista e dal produttore, che hanno saputo trasmetterci la visione del film e del personaggio. Io, non conoscendo il mondo dei manga e la cultura in modo approfondito, ho cercato di informarmi fin da subito, ma ammetto che il fumetto non l’ho ancora letto!»
Quali sono le principali differenze rispetto alla storia originale?
«Il fumetto è molto cupo e violento. È il prodotto di una cultura completamente diversa dalla nostra e si rivolge anche ad un target di nicchia che sa coglierne le metafore. Noi abbiamo scelto di alleggerire la storia pur senza svuotarla dei suoi significati profondi. Abbiamo aggiunto un po’ di comedy per far avvicinare tutti: io credo che, se ben dosata, la leggerezza possa essere un vero punto di forza».
Arrivando da ruoli come Manuel Ferro di Un professore ed Enea Monti di Nuovo Olimpo, un po’ di comedy ti serviva?
«Assolutamente! Nella seconda stagione di Un professore in realtà ho avuto l’opportunità di prendermi più libertà, ma con Prophecy mi sono potuto spingere oltre. Mi è piaciuto mettermi in gioco, perché la commedia richiede anche capacità di autocontrollo da non sottovalutare».
In Prophecy avete introdotto le figure dei rider sottolineando la difficoltà della loro condizione e quanto poco se ne parli. Anche in Un professore il tuo personaggio pone l’accento su temi come differenza di classe e privilegi: è un argomento che ti sta a cuore?
«L’idea di introdurre i rider è venuta ad Andrea Sgaravatti (il produttore, ndr) durante la pandemia, quando oltre ai rischi che corrono quotidianamente – penso anche solo alla pericolosità della strada – si sono aggiunti quelli del contagio. Abbiamo riflettuto tanto su cosa significhi doversi sostenere a costo di rischiare la vita. Anche con la storia di Manuel ho modo di riflettere sempre: su cosa significhi venire da una famiglia in difficoltà, vedere le cose da un’atra prospettiva, crescere senza guide importanti come un genitore. Credo che il cinema abbia il privilegio straordinario di poter portare nuove storie e raccontare realtà che non tutti conoscono. Io sono fiero di poterlo fare».
È questo il bello dell’arte in generale, dai quadri alle canzoni: potersi identificarsi nella storia di qualcun altro.
E il tuo personaggio in Prophecy cosa ti ha insegnato?
«Mi ha fatto riflettere la sua “doppia vita”, il contrasto tra ciò che sceglie per sé e ciò che vorrebbero i genitori. Il coraggio che serve anche per ricominciare da capo pur di seguire la propria strada».
La vita lontana dai riflettori

Un argomento molto caro alla Gen Z, di cui fai parte anche tu. In cosa ti sei rivisto?
«Forse nella sua ricerca del successo, che inizialmente persegue pensando solo a sé stesso, e soprattutto con una fretta quasi ossessiva. Lo vedo tanto nella mia generazione e ne soffro anche io: dobbiamo imparare ad apprezzare il tempo, affrontare le esperienze con dedizione per poterne ricavare più insegnamenti possibile.
Allo stesso tempo, però, sono felice anche di vedere tanti ragazzi e amici che on temono di affrontare il precariato e le strade “meno sicure”. Anche i miei amici cominciano a riflettere su quello che vogliono davvero, e alcuni sono arrivati a rinunciare a carriere “sicure” per trovare soddisfazione nell’arte che davvero amano. Non riesco sempre a dirglielo, ma sono fiero di loro. E mi sento anche io più sicuro, se so che non sto affrontando questo mondo da solo».
Tra Prophecy e Un professore sicuramente sei stato contornato da colleghi coetanei. Come ti sei trovato?
«Sempre benissimo, sono molto fortunato. Sul set di Un professore sono nati rapporti umani importantissimi, e la sintonia ci ha permesso di creare un prodotto in cui crediamo tanto. Ora, che stiamo girando con Andre Rebuzzi, per esempio, sentiamo tutta la sua energia sul set ed è bellissimo!»
Senti la competizione?
«Delle volte penso che siamo davvero in tanti, e so che i ragazzi con cui ho lavorato sono davvero molto bravi. Ma credo che il segreto sia essere chiari fin da subito: se lavoriamo tutti con serenità, diamo il massimo e vinciamo tutti».
Li consideri veri amici?
«Sì, e per me è una cosa davvero rara. Cerco di tenere il mondo del cinema e quello della mia sfera privata molto separati, cerco di non parlare di lavoro fuori dal set e viceversa. Ma quando ci si trova così bene è tutto molto naturale, e nel nostro caso durante le riprese una risata tira l’altra».
Damiano Gavino, Un professore è solo l’inizio
E poi c’è stato Nuovo Olimpo (2023, Ferzan Ozpetek), con un cast importante e proveniente da “un altro mondo”. Com’è stato?
«In quell’occasione ero il più piccolo, ma ho imparato tantissimo. Ho conosciuto persone importanti e soprattutto le loro storie, che cerco sempre di ascoltare perché mi serve tanto sapere cosa può capitarmi (o cosa potrei dover raccontare un giorno)».
Un film così importante a soli 21 anni: non hai fretta, ma non vai neanche piano!
(ride) «È vero, è vero, ma ho imparato a fare i conti con la pazienza per non diventare matto. È un mondo in cui non si può sempre avere dei piani ben definiti, e io all’inizio ho faticato a venire a patti con quest’idea. Ma sono anche stato molto fortunato, perché di lunghe attese ne ho avute poche e sto imparando a gestirle senza perdere sicurezza».
C’è stata una vera “botta di fortuna”?
«Sicuramente Prophecy! È arrivato in un momento in cui pochissimi stavano lavorando. Trovare ruoli e soprattutto riuscire a produrre qualcosa è ancora molto difficile in Italia, il cinema sta facendo fatica a riprendersi dalla pandemia. Ma il team dietro a questo film ha avuto tanto coraggio e dedizione, e io gli sarò per sempre grato di avermi dato quest’opportunità».
Damiano Gavino: il futuro
A che punto della tua carriera ti senti ora?
«Sono all’inizio, ovviamente! Ma comincio ad avere collezionato un po’ di “grandi momenti”, ci penso come se fossero le linee verticali sulle linee del tempo che studiamo a scuola. Ogni storia che racconto mi dà un bagaglio, e spero di collezionarne sempre di più.
Alessandro D’Alatri (attore, regista e sceneggiatore, ndr) una volta mi ha descritto la memoria di un attore come una tastiera di cui lui deve conoscere ogni tasto per poter dare il massimo: io sto perfezionando la mia tastiera».
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
«Mi piacerebbe poter unire cinema e musica, magari avere la possibilità di strimpellare qualche nota o raccontare una storia di questo genere. Non voglio dire che so suonare perché mi sento alle prime armi, ma è un mondo a cui sono molto legato».
E un consiglio che daresti a chi vuole scegliere il cinema?
«La cosa più importante credo sia non perdere la sicurezza, non buttarsi giù. Si chiudono più porte di quante se ne aprono, sempre, ma io sono convinto che non ci sia un solo treno per ognuno di noi, ne passano molti. Bisogna saper salire su quelli giusti, ma anche saperli attendere».