Ciuffi di capelli biondo-grigi. Un filo di barba bianca. Aria casual. Daniel Craig, ora al cinema con Queer di Luca Guadagnino, sembra un altro uomo, sullo schermo e non solo, rispetto all’impeccabile James Bond che ne ha consacrato il successo per 15 anni e 5 film, da Casino Royale (2006) a No time to die (2021), passando per Quantum of Solace (2008), Skyfall (2012) e Spectre (2015). Per lui croce, oltre che delizia. Prima di interpretare l’agente segreto al servizio di Sua Maestà, il 57enne attore inglese si era fatto strada nella scena teatrale e in film d’autore – come Era mio padre di Sam Mendes e Munich di Steven Spielberg – e qualcuno aveva pure criticato la sua scelta di accettare un ruolo tanto iconico quanto popolare.
«Ci avevo riflettuto molto, ma come resistere alla tentazione? Ancora oggi fatico a credere di essere un volto di quella saga» dice lui che, diventando produttore di alcuni capitoli della serie, ha avuto anche un ruolo decisionale. Non solo. È l’unico ad aver interpretato il celebre 007 accanto alla vera regina Elisabetta II, nel corto ideato da Danny Boyle per la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Londra 2012. Ma 15 anni sono tanti e, a un certo punto, Craig non ha nascosto la voglia di cercare storie e psicologie complesse nelle quali reincarnarsi, tornando a quello che sognava da giovane attore.
Daniel Craig: Queer è la mia occasione
E così eccolo in Queer, il film che Daniel Craig ha definito «l’occasione che non potevo lasciarmi sfuggire» e «il punto più alto della mia carriera». In Queer di Luca Guadagnino, tratto dall’omonimo romanzo breve di William S. Burroughs (pubblicato in Italia da Adelphi) e presentato in anteprima all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Daniel è William Lee, alter ego dello scrittore americano. L’autore più controverso della Beat Generation, vissuto nella dipendenza da stupefacenti e alcol, notoriamente gay anche se ebbe due mogli: Ilse von Kappler, una ragazza ebrea che sposò per farle ottenere il visto per gli Stati Uniti, e Joan Vollmer, amica e compagna di dipendenze, che uccise per errore nel periodo in cui viveva a Città del Messico. È sorprendente vedere l’ex Bond passare dalla quintessenza dello stile britannico alla figura di un autore americano “maledetto”, che nasconde la fragilità dietro sfacciataggine e spudoratezza.

Queer di Luca Guadagnino: la trama
Nel film, ora al cinema, William Lee è un uomo di mezz’età fuggito in Messico negli anni ’50 per darsi liberamente a ciò che negli Stati Uniti è proibito: droghe, alcol e sesso con altri uomini. Passa le giornate nei bar cercando antidoti alla sua solitudine, finché incontra lo studente Eugene Allerton (interpretato da Drew Starkey) e se ne innamora ossessivamente. È un personaggio queer in tutti i possibili sensi dispregiativi che la parola aveva in quegli anni: diverso, oltraggioso, eccessivo. Spesso sgradevole. «Ma soprattutto è profondamente solo e in cerca d’amore, come tutti noi, e questo è il punto di contatto che ho trovato con lui» dice l’attore. «Un uomo che vuole colmare il vuoto interiore e la tristezza».
Daniel Craig, invece, con Queer voleva colmare le ambizioni trascurate per via di James Bond e Luca Guadagnino è arrivato al momento giusto, con una proposta di fatto liberatoria. «I set italiani sono molto diversi dagli anglosassoni, soprattutto quelli di Luca: non ha segreti, è aperto agli incontri e allo scambio di idee. Con lui ho imparato a lasciar andare certe rigidità di cui forse non ero neanche consapevole» dice. Sulle scene di sesso gay molti gli hanno chiesto se abbia avuto momenti di imbarazzo.
«Ci sono tantissime cose che mi imbarazzano, ma il sesso non è una di queste, lo facciamo tutti! E poi quelle scene erano importanti, c’era bisogno di far vedere il rapporto fisico tra Lee e Allerton: senza, il film sarebbe stato più vuoto. Io e Drew Starkey abbiamo iniziato a provare mesi prima, anche ballare insieme ci ha aiutato. E c’era una sorta di coreografia in tutta la pellicola che ci ha permesso di trovare una sintonia, di essere il più naturali possibile».
Daniel Craig: prima e dopo James Bond
Ora come ora il curriculum di Daniel Craig è nettamente diviso tra il prima e il dopo Bond. L’insieme di maturità e successo sembra dargli la sicurezza di sperimentarsi dove e come vuole. «Non oso immaginare quanto sarebbe stata devastante una popolarità arrivata a 20 anni anziché a 38» riflette. «Ci sono molti lati belli, intendiamoci; ma avere gli occhi puntati addosso, dover rinunciare perfino alla libertà di uscire di casa è stato traumatico: all’inizio pensi che non potrai più frequentare neppure gli amici, che dovrai dire addio a tutto quello che facevi da persona semi-anonima. Poi te ne fai una ragione e trovi il modo di conviverci».
Tanto più che lui è sempre stato riservatissimo, sia sul primo matrimonio con Fiona Loudon, dal quale è nata la figlia Ella, ora 33enne, sia sul secondo con Rachel Weisz, con cui è sposato da 14 anni. L’amore è sbocciato sul set di Dream House tra il 2010 e il 2011, thriller psicologico di Jim Sheridan dove i due interpretano una coppia sposata. Lui è già divorziato da tempo e lei si è appena separata dal regista Darren Aronofsky, dal quale ha avuto Henry, oggi 18enne.
I paparazzi colgono Daniel e Rachel mano nella mano nel Dorset, dove il massimo della mondanità è un piccolo pub di campagna, ma nel giugno del 2011 le due star riescono a organizzare una cerimonia segreta per sposarsi solo alla presenza dei rispettivi figli e di due amici. Nel 2018 nasce Grace. Unica dichiarazione di Craig su tutto questo: «Sono innamorato e felice, non dirò altro perché voglio proteggere il nostro matrimonio».
Daniel Craig: addio maschio alfa
Quello su cui si esprime un po’ di più, forse anche per lo status ineludibile di sex symbol, è il concetto di mascolinità. «Ho riflettuto molto su quanto sia spesso artificiale e costruito: infatti è una caratteristiche di Bond che trovavo superate, a tratti perfino un po’ ridicole. Ma per interpretarle non potevo fare altro che crederci, lo scetticismo non avrebbe giovato a una figura così iconica» ha detto. «Anche l’eleganza maschile mi affascina, forse perché mia madre cuciva abiti per tutti noi e il nonno era un sarto ai tempi della seconda guerra mondiale. Ricordo che, per sdrammatizzare, scherzava su chi aveva ritirato un completo da lui il giovedì per ritrovarselo strappato e insanguinato il lunedì successivo».
Lo humour è sicuramente un altro filone post Bond che Craig esplora grazie alla figura dell’investigatore Benoit Blanc della saga Knives Out: il terzo film, Wake up dead man, è atteso in autunno. Che cosa condivide lui con i diversi personaggi che interpreta? «Sono molto emotivo. E l’emotività è quello che più mi interessa di ogni storia». Fin da quando aveva 6 anni e debuttò nella produzione scolastica del musical Oliver!. «Già nei temi delle elementari scrivevo di voler recitare» ricorda. A 16 anni fu preso al National Youth Theatre e si trasferì dal Cheshire a Londra, lavorando nei pub per mantenersi. L’unica strada che non vuole percorrere, a differenza di altri colleghi, è quella della regia: «Troppo impegnativa. Così, invece, la sera posso tornare a casa e staccare la spina».