Il Poeta si fa aspettare, ma quando arriva gli basta uno sguardo per conquistare la scena. Si presenta vestito da ufficiale al braccio di una giovane donna. È vecchio, ma ancora saldo nel proprio carisma. Guardandolo, tutti vedono l’eroe delle più audaci imprese, l’autore di appassionati discorsi e pagine di musicalità e sensualità avvolgenti. Chi stava pronunciando il suo elogio si tace. Il pubblico scatta in piedi e prorompe in un applauso. Ha davanti una gloria d’Italia. Il Soldato della Letteratura. L’Immaginifico. Il Vate.

Comincia così Il cattivo poeta, opera prima di Gianluca Jodice, ora nelle sale finalmente riaperte. Racconta gli ultimi anni di vita di Gabriele D’Annunzio. Comincia con l’attesa della sua comparsa in scena e con un applauso. È la primavera del 1936, Gabriele D’Annunzio ha compiuto 73 anni. Da più di 15 si è chiuso in una sorta di autoesilio a Gardone Riviera, sul lago di Garda, nella grande villa da lui ribattezzata il Vittoriale degli Italiani: un monumento a se stesso e al suo multiforme ingegno di scrittore, drammaturgo, giornalista, militare, politico, patriota e, soprattutto, poeta.


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– Ecco alcune scene di Il cattivo poeta, il film diretto da Gianluca Jodice, che racconta gli ultimi anni di vita di Gabriele D’Annunzio, interpretato da Sergio Castellitto.

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Il cantore della fusione dell’uomo con la natura

Proprio a Gardone, nel suo ritiro, D’Annunzio vive il lago come Oceano e il giardino come Foresta. Il gesto che rivolge al pubblico che lo sta omaggiando è da irriducibile anticonformista. Stende in avanti il braccio destro, la mano rigida, le dita unite, poi lo fa scendere lentamente verso il basso. Quello che poteva sembrare un saluto fascista diventa un segnale che invita tutti a sedersi di nuovo. Calvo, baffetti, pizzetto grigio, papillon, pugnale alla cintola, è un ottimo Sergio Castellitto a prestargli faccia e voce. Ha il disincanto ancora pieno di volontà di un Comandante, come tutti lo chiamano al Vittoriale, immalinconito da ciò che non può più fare nella vita.

Morirà dopo meno di 2 anni, la sera del 1° marzo 1938 seduto alla scrivania. Dopo la scena del mancato saluto romano, D’Annunzio si ritrova nello studio davanti a una mezza dozzina di emissari del regime fascista. Quando gli comunicano che Mussolini affiancherà militarmente Hitler in Spagna nel colpo di Stato del generale Franco, trattiene a fatica la stizza: «I miei più funesti presagi si stanno avverando». E quando ancora gli chiedono di scrivere un messaggio pubblico alle Camicie nere che stanno partendo per la Spagna, lui sciabola: «Non scriverò mai niente per le vostre camicie sordide!». E invita tutti a uscire, vuole rimanere solo.

D’Annunzio, la solitudine del genio

La solitudine del genio. Anche in mezzo alla folla. Anche con tutti i suoi eccessi di vitalismo. Nonostante il suo stare continuo sul palcoscenico. Nonostante la tensione di un’esistenza condotta fuori dalle convenzioni borghesi. Nonostante i mille amori: contesse e cameriere, giovani fanciulle e valchirie maritate, Eleonora Duse, la grande attrice, e Luisa Baccara, l’eterna devota (benché il cuore lo abbia consegnato a un’unica donna, Luisa, sua madre). Nonostante tutto, l’istrionico Gabriele D’Annunzio è sempre stato solo.


Ebbe una pirotecnica storia d’amore con Eleonora Duse. Ma la sua più passione più travolgente fu la vita


Per sfuggire alla solitudine, scrive. Debutta con una raccolta poetica a 15 anni, Primo vere. E per tutta la vita incarna la poesia nel suo farsi. Non tanto andando a capo prima che finisca la riga, ma con le sue azioni politiche e civili. Con il suo modo di stare fra le cose del mondo. Con lo spericolato volo su Vienna e l’impresa di Fiume, la città contesa con il Regno di Jugoslavia da lui governata per 15 mesi. Con l’immaginazione con cui ha dato nome alle cose, inventando parole come scudetto, velivolo, fusoliera, vigile del fuoco, creando il marchio Saiwa, ribattezzando un negozio la “Rinascente”. Con la cordiale inimicizia per il Duce. Con l’avversione per Hitler, definito «ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot».

Alla fine, nell’autoreclusione dorata del Vittoriale, circondato da una corte di spioni, segretari, servi, profittatori, dedite amanti e fanciulle pagate per offrirsi ai suoi sogni di piacere, D’Annunzio sopravvive in una penombra di solitudine, figlia di una orgogliosa indipendenza intellettuale.

D’Annunzio è un poeta da riscoprire

Per questo è un poeta da riscoprire, al di là delle maschere che lo imprigionano in definizioni di comodo. Basta la chiusa della Pioggia nel pineto, quella di “Taci. Su le soglie/ del bosco non odo/ parole che dici/ umane…”. Il senso di abbandono e disillusione è tutto nel finale: “E piove su i nostri volti/ silvani,/ piove su le nostre mani/ ignude,/ su i nostri vestimenti/ leggeri,/ su i freschi pensieri/ che l’anima schiude/ novella,/ su la favola bella/ che ieri/ m’illuse, che oggi t’illude,/ o Ermione”.

Ermione sarebbe la divina Duse, con cui D’Annunzio ha vissuto una pirotecnica storia d’amore. Viene però da credere che, evocata in quel nome, ci sia l’intera Vita, l’unica con cui D’Annunzio, cinico consapevole e poeta geniale, ha vissuto la più travolgente delle passioni. E poi l’ha scritta.

Gian Luca Favetto, autore di questo articolo, è uno scrittore. Il suo ultimo libro è Attraverso persone e cose – Il racconto della poesia (add)