Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg, Elon Musk. Sicuramente conoscete questi nomi. Probabilmente avrete sentito parlare anche di Tim Berners-Lee, il padre del World Wide Web. Difficilmente vi ricorderete di Ada Lovelace, se non quando Google si premura di festeggiarla con un doodle (quelle icone carine che compaiono sul browser durante le ricorrenze) o perché ne avete trovato la storia in uno dei tanti libri sull’empowerment femminile. Men che meno Grace Hopper, Betty Holberton, Jake Feinler, Stacy Horn o Wendy Hall vi dicono qualcosa.
Sono le donne di cui racconta Connessione. Storia femminile di Internet, appena uscito per Luiss University Press. Un saggio di Claire L. Evans, scrittrice e musicista americana, leader della pop band Yacht. Una neo Annie Lennox con la passione per la fantascienza e la tecnologia. Femminista convinta, anzi cyberfemminista come le piace definirsi, Evans è andata a cercare documenti, libri, interviste e ha percorso chilometri per incontrare le pioniere della modernità, e farsi raccontare la loro esperienza. Tutto questo per colmare un vuoto: quello della storia della tecnologia in cui le donne sono state protagoniste e fautrici del progresso senza però riuscire mai a prendersene i meriti perché messe da parte, scavalcate da una cultura maschile che le voleva sempre in secondo piano. «Donne che hanno scritto i codici, perforato le schede, collegato i cavi, progettato le macchine, elaborato i programmi, inventato le interazioni che ci hanno portato fino a qui» scrive Giulia Blasi, autrice di Manuale per ragazze rivoluzionarie (Rizzoli), nell’introduzione al libro della Evans.
Donne affascinanti, diciamo noi, che potrebbero tranquillamente diventare i personaggi di una serie tv. Non fosse altro per la determinazione, le ore senza sonno, la caparbietà che le ha guidate e spesso, molto spesso, la genialità e l’intuizione che le contraddistingueva.
Calcolavano come i computer
Avete presente Il diritto di contare? Il film del 2016 candidato all’Oscar che raccontava delle donne nere che passavano ore e ore a calcolare a mano traiettorie per i voli spaziali? Non erano le sole. Nel 20° secolo esistevano gli uffici di calcolo popolati da “computer” umani. «Il calcolo era il lavoro noioso delle scienze organizzate; prima che divenissero obsoleti, questi computer umani prepararono traiettorie balistiche per l’esercito degli Stati Uniti, decrittarono codici nazisti, elaborarono dati di astronomia e parteciparono agli studi numerici per la fissione nucleare nell’ambito del progetto Manhattan. Malgrado la varietà dei lavori che facevano, questi calcolatori umani avevano una caratteristica in comune. Erano donne» scrive Evans. Con l’arrivo dei primi giganteschi computer, erano loro che programmavano, schiacciavano i tasti, fornivano i calcoli perché «anche estrarre e inserire informazioni dalle nuove macchine era considerato un lavoro da donna, al livello della dattilografa, dell’archiviazione di documenti e del collegamento di telefonate».
Creavano nuovi software
Qualcuna, però, si fece strada. Come Grace Hopper, morta nel 1992 a 86 anni, e considerata una pioniera della programmazione informatica. Insegnante di matematica, a 37 anni, quando il Giappone attaccò Pearl Harbor, fu colpita dalla febbre del patriottismo ed entrò in Marina. Era sottopeso, occhialuta, già anziana per l’esercito, ma era un genio del calcolo e si vedeva a decrittare codici nemici con un gruppo ristretto di matematici e logici. Lasciata la casa, un marito e un lavoro stabile, venne invece spedita a Harvard dove divenne la terza programmatrice del primo computer al mondo e ispiratrice per molte altre donne col pallino per i numeri. Subito dopo arrivarono “le 6 dell’Eniac”, dove Eniac sta per Electronic Numerical Integrator Computer, «una macchina grande come una stanza piena di guaine e acciaio». Tra queste Betty Snyder, che risolveva problemi nel sonno ed «era in grado di fare più ragionamenti logici di quanti gran parte della gente riesce a fare da sveglia». E Betty Jean che si lamentò del gender gap (negli anni ’50!), riuscì a farsi alzare lo stipendio, e convinse anche gli ingegneri a cambiare il colore esterno di un gigantesco computer dal nero al beige, «che sarebbe divenuto il colore universale del pc da tavolo».
Sperimentavano reti
Dal calcolo a Internet il passo è breve per chi era abituato a fare, e ragionare, in termini di Rete. Jake Feinler, la prima della sua famiglia a laurearsi al college, entrò giovanissima, in tailleur e tacchi «fuori posto ma a suo agio tra hippy e hacker», allo Stanford Research Institute come assistente alle ricerche tecniche. Raccoglieva e sintetizzava informazioni su cartoncini da schedario, «proprio come funziona oggi un motore di ricerca». Era l’inizio degli anni ’70, nasceva Arpanet, l’embrione di Internet, e Jake divenne il capo del Network Information Center, cioè controllava il traffico e forniva domini: .mil per gli host militari, .gov per il governo, .org per le organizzazioni e .com per le entità commerciali. Negli anni ’80 fu Stacy Horn, studentessa di New York, a dare un’altra spinta al web. Fondò Echo, una comunità virtuale (allora fatta ancora di bacheche) dove si parlava di letteratura, film, sesso. Che, se ci pensate, è quello che facciamo oggi con Facebook, se escludete il sesso. Un’altra donna che ha lasciato il segno, come anche Wendy Hall, 68 anni, britannica che insegna ancora informatica a Southampton. Inventò Microcosm, un sistema di link e ipertesti che precede il World Wide Web. Poi si sa, di queste donne, il loro lavoro e i loro nomi poco è arrivato fino a noi. Ma chissà che la prossima volta che accendete un pc e navigate sul web non penserete un po’ a Grace, Betty, Stacy e Wendy.