L’arte occidentale l’ha inventata una donna – almeno secondo il racconto di Plinio il Vecchio, poi confluito nella tradizione umanistica e rinascimentale. La figlia di un vasaio di Corinto, disperata per la partenza dell’amato, traccia sul muro la sua ombra per averlo sempre accanto. Da lì originano il disegno, il ritratto e la scultura. Plinio, del resto, ricorda con ammirazione numerose artiste, fra cui l’ateniese Timarete, l’alessandrina Helene pittrice di battaglie, e la ritrattista vergine Iaia di Cizico.
Le pittrici svaniscono nella leggenda
Col tramonto del mondo classico, però, e per un millennio, le pittrici svaniscono nella leggenda. Così, negli immensi musei del mondo è un’eccezione imbattersi nell’opera di un’artista. Questa rarità/assenza è stata a lungo ritenuta la prova che non sono esistite “maestre”, perché alle donne manca il genio. Essa invece rispecchia la loro collocazione sghemba nel mercato dell’arte (fino al ’700 di Rosalba Carrera e Angelica Kaufmann, pochissime – fra cui Sofonisba Anguissola – ebbero accesso alle corti, dalle cui collezioni nascono i musei). Ma anche la tipologia delle loro opere: confinate nella pittura di genere, “inferiore” per la gerarchia accademica che incoronava la pittura di storie, spesso – come Fede Galizia o Rachel Ruysch – figurano, indistinguibili dai colleghi, nelle sale dedicate alle nature morte, ai ritratti e ai fiori.
Monache pittrici e imprenditrici
Rinchiuse fra spesse mura, divennero illustratrici di ingenue scene devozionali ma anche imprenditrici. Eppure esistevano le pittrici. Anzi, le “pittoresse” – come recita il necrologio di Antonia Doni, primogenita di Paolo Uccello, monaca a san Donato in Polverosa. Di lei si conserva una toccante Vestizione di una monaca. Suor Antonia (1446-1488) inaugura l’onorata schiera di monache pittrici. Recluse fra le spesse mura dei monasteri, vi trovarono opportunità negate al di fuori di esse.
Divennero non solo illustratrici di ingenue scene devozionali (come suor Eufrasia della Croce, carmelitana scalza a Roma nel ’600), ma anche imprenditrici di successo come la domenicana suor Plautilla Nelli (1524-1588), le cui opere divennero molto richieste a Firenze al punto che a santa Caterina allestì una vera bottega, per formare allieve in grado di aiutarla a soddisfare le richieste dei committenti. Nel museo di san Marco non perdete il suo Compianto sul Cristo morto. Era talmente talentuosa che «avrebbe potuto dipingere come un uomo» osserva lo storico dell’arte Giorgio Vasari, se solo avesse studiato.
Quell’amara ipotetica segna il bivio davanti al quale si arrestò il cammino. Perché la questione non era solo morale (può una donna destinata alla maternità o alla preghiera dedicarsi all’arte?) e sociale (cosa accadrebbe se le donne potessero intromettersi nei lavori degli uomini fino all’indipendenza economica, cioè alla libertà?), ma anche pratica. La pittura è un mestiere artigianale, e come tale si apprende. Il talento non basta.
Le pittrici figlie d’arte tra il ’500 e il ’700
Solo le figlie d’arte vennero istruite alla tecnica pittorica e divennero famose tra il ’500 e il ’700. Occorrono anni in bottega, accanto a un maestro, per apprendere a preparare i colori, disegnare, pennellare. Occorre studiare la prospettiva, l’anatomia, il corpo umano. E una donna non può. A meno che non sia figlia d’arte. In quel caso è il padre stesso a istruirla, fornendole i repertori di disegni, i pigmenti, la tecnica insomma.
Non è un caso se le principali artiste fra il ’500 e il ’700 sono figlie di pittori. Di un onesto ritrattista, come Catharina von Hemessen di Anversa; di un genio, come il veneziano Tintoretto: Marietta dipinse dame, cavalieri e quadri di sua invenzione e venne chiamata a corte da imperatori e re (ma non ci andò mai, perché il padre non volle privarsi di lei); di un maestro inquieto come Orazio Gentileschi, che Artemisia superò per audacia e ambizione; oppure di un marginale come Giovanni Bricci, che però fornì alla figlia Plautilla gli strumenti per inserirsi nel competitivo mondo artistico della Roma del ’600, dove lei – con tenacia e intelligenza, come ho raccontato nel romanzo L’architettrice – riuscì a diventare pittrice e la prima donna architetto dell’Europa moderna. Figlie d’arte erano anche la bolognese Elisabetta Sirani, “gloria del genio femminile”, che fondò l’Accademia delle Donne, e la schiva Giulia Lama, che al tempo di Tiepolo si ostinò a dipingere vaste pale d’altare.
Le pittrici nel ‘900
Con l’espressionismo, l’astrattismo e il futurismo del ’900 il muro inizia a sgretolarsi. Ancora nell’800 le pittrici erano considerate dilettanti, perché saper dipingere era una virtù sociale, come suonare il pianoforte, conversare o danzare. Solo la francese Rosa Bonheur riuscì a diventare ricca e famosa coi suoi quadri di cavalli, ma per farsi prendere sul serio dovette vestirsi da uomo. Berthe Morisot non vide riconosciuto il suo ruolo nel movimento impressionista, e Suzanne Valadon – pur stimata da Degas – rimase la modella di Renoir e la madre di Utrillo.
L’internamento in manicomio della scultrice Camille Claudel, che era riuscita a competere col suo amante/maestro Rodin, pareva ammonire quante avessero voluto emularla.
È solo nel ’900, con le avanguardie, che il muro inizia a sgretolarsi. Kathe Köllwitz è riconosciuta tra i capofila dell’espressionismo, Sonia Delaunay dell’orfismo, Natalia Gončarova del futurismo e raggismo, Meret Oppenheim e Frida Khalo del surrealismo, Marina Abramovic e Orlan della body art, Maria Lai dell’arte relazionale, Carla Accardi dell’astrattismo… E all’ultima Biennale d’Arte di Venezia (2019) i premi sono andati alla messicana Teresa Margolles, alla nigeriana Otobong Nkanga e alla cipriota Haris Epaminonda.
Benvenuto dunque il nuovo allestimento di Cristiana Collu alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, che vedrà il 30% delle opere di mano di donna (vedi box più in basso). Poiché è necessario imporre una costellazione nuova nell’immaginario. Solo così non si tornerà indietro. La storia che ho provato a riassumere è infatti ricca di slanci in avanti e dolorosi arresti, ma per non fornire scuse all’oblio bisogna che le opere restino visibili. Come la minacciosa aracnide d’acciaio di Louise Bourgeois, Maman (1999), che col ventre gonfio di uova troneggia davanti alla Tate Modern Gallery, a ricordare al mondo la perturbante vitalità generatrice di ogni creatura femmina.
A Roma il museo “apre” alle donne
Sarà un percoso graduale, ma entro fine anno alla Galleria nazionale di Roma il 30% delle opere esposte sarà di artiste donne (al momento sono 17, circa il 10%). La decisione è stata presa dalla direttrice Cristiana Collu, alla guida del Museo dal 2016, che ha promesso di puntare sia su nuove acquisizioni sia sulla valorizzazione di artiste dell’Ottocento e del Novecento già presenti in Galleria ma poco celebrate.
«Non vedrete uncinetti e bei paesaggi. Si scoprirà la capacità delle donne dell’arte di tracciare un racconto del proprio tempo» ha detto la direttrice, che ha in programma anche la grande mostra Io dico Io, a marzo 2021, che raccoglierà 40 artiste, tra le quali Monica Bonvicini, Ludovica Carbotta, Marzia Migliora, Paola Pivi, Tatiana Trouvé, Lisetta Carmi.
L’ ultimo romanzo di Melania Mazzucco, autrice di questo articolo, è L’architettrice (Einaudi)