«Da quando ho iniziato il tour nelle università, sono state uccise quattro ragazze della stessa età delle studentesse che ho incontrato». Edoardo Leo ha voluto portare negli atenei di tutta Italia il suo nuovo film da regista, appena arrivato al cinema, Non sono quello che sono: una rilettura contemporanea in dialetto romanesco dell’Otello di Shakespeare, dove Otello è un boss della malavita, Desdemona la ragazza che ha appena sposato, Iago un suo sottoposto che cova rancore per una mancata “promozione”. L’attore e regista romano, 52 anni, era consapevole della drammatica attualità di questo lavoro, ma forse non si aspettava che alcune studentesse si alzassero in piedi «raccontando di quando sono state molestate».

Edoardo Leo è al cinema con Non sono quello che sono

Da dove nasce la scelta di rappresentare il male senza edulcorare nulla?

«Da una domanda: com’è possibile che un testo del 1600 riesca a descrivere tanto lucidamente le dinamiche di gelosia tossica proprie della nostra società? La mia risposta è questo film, che ho voluto realizzare proprio per suscitare altre domande, senza la pretesa di insegnare niente a nessuno. La messa in scena è cruda perché ormai leggiamo dei femminicidi quasi come se ci fossimo abituati alla “ennesima vittima”, senza pensare a tutta la violenza e brutalità di simili atti».

Come hanno reagito gli studenti?

«Alcuni sono rimasti scioccati, altri si sono immedesimati. La mia speranza è che si portino a casa un interrogativo che resti impresso per sempre. L’inizio del baratro è giustificare il primo, apparentemente innocuo, gesto di sopraffazione, come quando Desdemona dice: “Sono così innamorata di lui che gli perdono anche certi scatti”».

Interrogarsi sulla propria mascolinità

In quanto uomo, lei prova sensi di colpa?

«Per la mia sensibilità e l’educazione che ho avuto la fortuna di ricevere in casa, mi sento intimamente esente da comportamenti patriarcali. Ma senz’altro, mentre giravo, mi sono interrogato a fondo, provando a capire se avessi mai avuto atteggiamenti tossici. A volte mettiamo in campo un maschilismo inconsapevole, in questo siamo colpevoli tutti noi uomini».

Ritiene ci sia bisogno di nuovi modelli di maschile in cui i ragazzi possano riconoscersi?

«Credo possa essere utile mostrare alle nuove generazioni soprattutto come reagire quando si entra in contatto con la propria parte fragile. Ancora associamo la fragilità al lato “femminile” dell’uomo. Un errore clamoroso, come a dire che il femminile è la parte che vale di meno. Noi uomini siamo stati educati alla virilità, invece è ora di dire – al cinema, così come in famiglia e nelle scuole – che piangere è virile. È un lungo lavoro culturale che non si può più rimandare».

Lei come è arrivato a capire che piangere è virile?

«La messa in scena delle emozioni fa parte del mio mestiere d’attore. Da ragazzo, per fortuna, mi sono innamorato di un lavoro in cui ero legittimato a combattere i miei tabù e mostrare la mia parte fragile. Dico sempre che la recitazione mi ha aiutato più di ogni altra cosa al mondo, per questo motivo sono convinto che dovrebbero esserci più corsi di teatro nelle scuole».

Le maestre di Edoardo Leo

Si chiede spesso dei maestri, vorrei chiederle invece quali sono state le sue maestre.

«Le donne della mia famiglia. Mia madre, le mie nonne, mia sorella. Donne emancipate e mai succubi dei comportamenti maschili, persone profondamente oneste che in casa contavano – eccome! – e che hanno contribuito a farmi alzare le antenne su questi temi sin da giovanissimo».

E fuori casa?

«La regista Liliana Cavani, una donna illuminante con cui ho avuto la fortuna di lavorare nel film L’ordine del tempo (uscito lo scorso anno, ndr). Mi ha raccontato della condizione femminile negli anni ’70, della fatica enorme che ha fatto per superare certi steccati e imporsi come regista in quanto donna».

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Edoardo Leo sul set di Non sono quello che sono

Oggi le sembra migliorata la situazione nel mondo del cinema?

«Quello che vedo io conta poco, contano di più i numeri. Da quelli che leggiamo nelle statistiche emerge una disparità di genere in quasi tutti i comparti. Il cinema rispecchia la nostra società in cui le donne hanno meno opportunità, diritti, paracaduti sociali e fanno più fatica a lavorare. Sono dati, non opinioni, non si possono negare».

Da Non sono quello che sono alla commedia, per Edoardo Leo il cinema deve suscitare domande

Oltre a dirigere, interpreta anche uno Iago invecchiato. Cosa ha provato quando si è guardato allo specchio con 20 anni di più?

«Mi ha fatto effetto, ammetto di aver pensato: “Magari arrivarci come lui!”. La cosa peggiore, però, non è stata quella, ma perdere i 20 chili che avevo facilmente preso per il film».

So che è il suo mestiere ma, dal punto di vista emotivo, come riesce a passare con disinvoltura da un film cupo come Non sono quello che sono a una commedia romantica come FolleMente di Paolo Genovese, che sta girando in questi giorni?

«Utilizzo lo stesso metodo per ogni mio personaggio: ricostruisco la sua biografia e tutto quello che nel film non si vede, che sia Iago, un personaggio di fantasia o un antieroe romantico, come quello che mi vedrete interpretare in Trenta notti con la mia ex di Guido Chiesa con Micaela Ramazzotti. Amo le belle commedie sofisticate e il cinema che suscita interrogativi importanti».