Ci sono scrittori che ti entrano nel cuore. Lo fanno con storie che ti accarezzano delicate ma non ti lasciano più, perché sono così profonde da colpire l’anima. Elizabeth Strout è una di questi.
Americana, classe 1956, vive tra New York e il Maine con il secondo marito James Tierney, avvocato e politico, conosciuto 6 anni fa. Vincitrice del Premio Pulitzer nel 2009 per Olive Kitteridge (Fazi), ora si gode il successo dell’ultimo romanzo, Mi chiamo Lucy Barton (Einaudi).

La incontro a Milano: è una signora alta ed elegante, che mi regala subito un caldo abbraccio e inizia a raccontarmi di quando Lucy, la protagonista del libro, le è apparsa per la prima volta. «È successo davvero» dice ridendo di gusto, mentre gioca con gli occhiali e si accarezza i capelli biondi raccolti in uno chignon spettinato. Poi, soppesando le frasi e scrutandomi negli occhi, spiega: «Ho visto questa scena: una donna malata in un letto d’ospedale, sola e sfiduciata finché non arriva la madre, con cui non ha contatti da anni. La voce di Lucy mi ha parlato per giorni. E io l’ho ascoltata».

Chi è Lucy?

Una moglie e madre di famiglia come ce ne sono tante. Generosa e insicura, è diventata scrittrice ed è riuscita a riscattare un’infanzia fatta di miseria e vergogna. La differenza di classe è un argomento che mi sta molto a cuore in questo periodo. Prima l’America era il Paese delle opportunità: chiunque poteva passare dalla povertà alla ricchezza grazie all’impegno.
Ora la crisi ha cancellato tutto: per tanti un lavoro di buon livello resta una chimera e si stanno riacutizzando le distanze sociali.

Questo è anche il romanzo dei silenzi. Lucy e sua madre passano lunghi momenti senza scambiarsi neppure una parola.

Sì. Vivono anche loro il paradosso del nostro tempo: nel secolo della comunicazione abbiamo difficoltà a parlare di noi. Discutiamo, postiamo e twittiamo ogni istante, eppure non riusciamo a dire ai nostri cari che li amiamo.

Il rapporto tra la protagonista e la madre è complicato. Il suo com’è stato?

E lei che tipo di mamma è oggi? Mia madre Beverly, che ha 88 anni e abita nel Maine, è poco affettuosa e abbastanza severa: la classica professoressa che ha insegnato per decenni e ha mantenuto il piglio da maestra. Ma mi ha spronato a scrivere. Quando ero bambina mi comprava dei quaderni e mi diceva di annotare ogni giorno ciò che mi succedeva. Poi ha sempre sostenuto ogni mio progetto: insomma, ha fatto la cosa più importante che possa fare una madre. Mia figlia Zarina? Cerco di ascoltarla e di lasciarle i suoi spazi. La adoro e lei ricambia. E questo è ciò che conta nel nostro legame (la figlia della Strout, nata dal primo matrimonio, ha 32 anni, ndr).

In questo libro la protagonista parla in prima persona. Come mai?

Mi è venuto spontaneo quando ho cominciato a tratteggiare le scene iniziali: era come se Lucy avesse preso la parola da sola. E quello che diceva era così forte che l’ho lasciata fare. I miei romanzi precedenti assomigliano a un tessuto fitto, pesante. Invece questo sembra fatto di seta, forse perché è incentrato sui sentimenti e sulla famiglia: due temi quanto mai delicati.

Cos’è per lei la famiglia?

Il luogo in cui tutto nasce e tutto torna, dove l’essere umano si plasma e a cui aspira. Le persone cercano disperatamente di vivere in quella perfetta. Ma non ci riescono, e il motivo è semplice: la famiglia perfetta non esiste. Lo racconto anche nei miei libri, spero di aiutare i lettori a capirlo: in ogni legame di sangue, in ogni casa, convivono amore e odio, passione e indifferenza. Spesso i sentimenti negativi sono anche i più forti. Altrimenti non sarebbe vita.

Nei suoi romanzi spiccano i personaggi femminili. Come stanno le donne oggi?

Diciamo che non sono in formissima. Certo, vedo ragazze in gamba, fantastiche e appagate, ma quanta fatica c’è dietro al loro successo? Troppa, almeno il doppio rispetto a quella che fanno gli uomini. La parità di genere resta un traguardo lontano. Io mi faccio ispirare dalle donne normali come le mie amiche o le signore che incontro al supermercato: sono diversissime le une dalle altre, ma nella quotidianità tutte esprimono fragilità e forza allo stesso tempo.

Da Olive Kitteridge è stata tratta la serie tv con Frances McDormand, mentre Robert Redford ha acquistato i diritti de I ragazzi Burgess per girare un film. Che effetto le fa vedere i suoi personaggi sullo schermo?

È strano: da un lato sono entusiasta perché il risultato è ottimo, dall’altro quasi non li riconosco. Sembro una mamma che guarda i propri figli con occhi altrui. I bei film mi appassionano sempre, anche se ultimamente ammetto che mi perdo tra telegiornali e dibattiti politici.

Per chi voterà alle elezioni americane di novembre?

Hillary Clinton, senza dubbio. Non vedo l’ora di applaudire la prima donna presidente degli Stati Uniti. Quando l’ascolto, sento la grinta e la speranza. Mentre le idee estreme e razziste di Donald Trump sono figlie della paura. Ma con il terrore il futuro muore.

Olycom
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Elizabeth Strout: i libri cult


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Olive Kitteridge (Fazi, 2009).

Olive è un’insegnante in pensione che scruta implacabile le giornate di chi sta al suo fianco: il marito, il figlio e gli abitanti di Crosby, paesino sulle coste del Maine. Realista.


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I ragazzi Burgess (Fazi, 2013).

I fratelli Jim, Bob e Susan si ritrovano nella cittadina in cui sono cresciuti. E fanno i conti con un dramma del passato che avevano cercato di cancellare. Potente.


4 di 4

Mi chiamo Lucy Barton (Einaudi, 2016).

Lucy è in ospedale quando all’improvviso la madre, che non vede da anni, le fa visita e rimane al suo fianco per 5 giorni e 5 notti. Delicato.