Completo scuro, una Coca Cola in mano, sorridente. Ethan Hawke ha qualche ruga in più, ma lo sguardo è ancora quello del ragazzo del capolavoro di Peter Weir con Robin Williams L’attimo fuggente. E non solo lo sguardo. Lo incontro nello stesso luogo in cui, 35 anni fa, il film che lo ha lanciato nel mondo fu presentato in Italia: Venezia. Ethan, 54 anni a novembre, ha all’attivo 100 titoli da attore, 9 sceneggiature e 4 candidature all’Oscar. È anche padre di 4 figli (2 con Uma Thurman e 2 con la seconda moglie Ryan Shawhughes), a cui ha dedicato Le regole del cavaliere, un racconto in cui li sprona su valori come il coraggio e l’uguaglianza, l’amore e la morte. Con la maggiore, Maya, 26 anni, già protagonista della serie cult Stranger Things, ha da poco condiviso il primo progetto cinematografico insieme.

Ethan Hawke ha presentato Wildcat al Lucca Film Festival

Di Wildcat, appena presentato al Lucca Film Festival, Hawke è il regista e Maya la protagonista. La storia racconta la vita della scrittrice americana Flannery O’Connor. Siamo nel 1950, in Georgia, Flannery ha 24 anni e le viene diagnosticata una malattia cronica autoimmune. È lo stesso male che ha tolto la vita a suo padre quando era piccola e che lei combatte mentre cerca di pubblicare il primo romanzo. Nel corso del film farà pace con la sua situazione e guarirà la relazione con la madre Regina (Laura Linney), ma il racconto è quello del tormento di un’artista che a un certo punto si sente persino chiedere: «Perché non scrivi un libro che piacerà a tutti come Via col Vento?».

Lei si è mai sentito chiedere di piacere a tutti?

«Eccome se mi è capitato, mi sono trattenuto per non urlare! (ride, ndr). A dire il vero, io amo chi scrive cose che non mettono tutti d’accordo».

Un esempio?

«Pauline Kael, che era una critica cinematografica del New Yorker venerata da mia madre. Quando uscì L’attimo fuggente scrisse: “Se vedo un altro film che mi fa sentire felice di essere viva, mi metto una pistola in bocca e premo il grilletto”. Probabilmente a Pauline Kael sarebbe piaciuta Flannery O’Connor».

Perché ha scelto la sua storia?

«Mia figlia Maya la adora e voleva fare un film su di lei.

Quando ami qualcuno che vuole dedicarsi all’arte capita spesso, un genitore vorrebbe sempre accontentare i figli.

Dai racconti di Flannery è emerso l’autoritratto di una persona giovane che non aveva molti amici, l’unico rapporto su cui lavorare per raccontare la sua vita era quello freddo e sbrigativo con la madre».

Ethan Hawke: papà e regista

Com’è stato dirigere Maya?

«Se dovessimo gestire la cena del Giorno del Ringraziamento, litigheremmo sull’ora in cui trovarci, su cosa mangiare e su chi invitare. Invece realizzare un film insieme è stato facile: adoro come recita e il modo in cui il suo cervello lavora sulla narrazione. Sono anche il suo critico più severo, la persona giusta per lavorare con lei».

Lei e la madre, Uma Thurman, vi siete separati quando aveva 7 anni. Come ha costruito un rapporto saldo con Maya?

«I bambini sono quello che sono, hanno una relazione tutta loro con l’universo. Alcuni sono estremamente indulgenti, altri sono rabbiosi. Maya è una persona molto amorevole, è difficile avere una relazione negativa con lei perché è lei che non la vuole».

Nel film è una perfettina, a tratti toglie il fiato.

«La pressione che noi esseri umani mettiamo su noi stessi per essere perfetti è sorprendente. Non siamo disposti a fare errori, e questo ci rende pesanti».

Aveva già raccontato la vita del cantante country Blaze Foley in Blaze.

Cosa le piace quando dirige?

«Per me un buon film biografico non è incentrato sulla persona, ma su un argomento. Le vite degli altri per me sono uno strumento, servono a creare un dialogo sulla creatività positiva rispetto a quella negativa. Esistono due pozzi di creatività: in uno trovi l’amore, gli uccelli, le case sugli alberi, la magia; nell’altro, l’alcol, la dipendenza, il disprezzo per se stessi. Entrambi, in un modo misterioso, generano grande arte».

La sofferenza è indispensabile per fare arte?

«Ci sono persone che traggono un’incredibile ricchezza dagli attriti e dalla negatività della vita. Ma io non sono così. A me piace dirigere per creare spazi in cui un attore può brillare e omaggiare persone come Flannery O’Connor o Blaze Foley.

Ma se il compito dell’arte fosse rendere tutti felici, sarebbe come cercare di accontentare tutti a una cena: l’unico modo è servire solo cheeseburger.

Se vuoi nutrire un certo tipo di persona offri qualcosa di più specifico, e questo è il mio modo di lavorare».

Ethan Hawke e le critiche

A distanza di 35 anni come reagisce alla critica delle moderne Pauline Kael?

«Oggi è molto più facile essere un critico cinematografico rispetto a quando lo erano lei o Roger Ebert. C’erano pochi sbocchi, ma l’educazione cinematografica era diversa. Se ricevevi una recensione negativa da Ebert, cioè da un vero esperto di cinema, la conversazione era più interessante del pensare alla carriera».

Da ragazzo immagino ignorasse il botteghino.

«Hanno cominciato i media a dire “il tal film ha incassato 100 milioni di dollari”. E rapidamente anche la critica si è trasformata in una gara che assegna stelline. Per un giovane artista, però, il valore sta nel cercare di allontanarsi dalla competizione, che a me annoia molto… Ma sa che sto ancora pensando all’arte e alla sofferenza?».

Prego, continui.

«Se hai 24 anni, come Flannery, e ti viene detto che forse non festeggerai il prossimo Natale, il tuo modo di vedere il mondo cambia. Insomma, si danno troppe cose per scontate».

Intende dire che la consapevolezza della morte dà uno sguardo diverso?

«Sappiamo tutti che moriremo, ma per andare avanti nella nostra giornata dobbiamo dimenticarcene. Vogliamo fare, appartenere al nostro tempo e seguire il nostro cuore, perché sappiamo che il momento è adesso. Girare L’attimo fuggente a 18 anni è stato meraviglioso, e in un qualche modo ne ho interiorizzato il motto».