«A mia figlia una cosa del genere non capiterà mai». È stato il primo pensiero auto-consolatorio a cui mi sono aggrappata, come faranno altre frotte di genitori, per cercare di uscire dallo stato di profonda angoscia in cui Euphoria, la serie targata HBO – e giunta alla seconda stagione – in onda su Sky Atlantic, mi aveva gettata.
Ho in casa una preadolescente che è solo a una manciata di mesi di distanza dai protagonisti
di questo crudo spaccato di sbandamento adolescenziale, uso smodato di alcool, droghe, e sesso. Potrei raccontarmi che parla di pochi: una visione settoriale, vincolata al contesto, è l’America, ah, com’è lontana l’America. Invece no. Sarebbe miope definirla solo un’ottima serie tv che racconta con realismo disarmante dello sbandamento di un’intera generazione: il tema reale è molto più sottile e, credetemi, molto più straziante. I protagonisti di Euphoria, tutti al di sotto dei 20 anni, non sono sbandati, sono smarriti.
Persi, incerti, ossessionati dall’idea che esista qualcosa di migliore rispetto alla desolazione del reale. Ragazzi e ragazze che si aggirano puntata dopo puntata in cerca di dosi varie: di droga, di sesso, di attenzione, di affetto, di popolarità. Le consumano e sanno bene che non basterà, perché nulla di ciò che ottengono è realmente quanto cercano. Il sesso, copiato da PornHub, non è divertente, funziona solo come moneta di scambio, per avere un avanzamento sociale, come avviene a Kat, per autodeterminarsi, come fa Nate, o per esistere agli occhi degli altri, come avviene a Jules, pronta a farsi stuprare pur di sentirsi importante.
La droga, raccontata prevalentemente da Rue, è spogliata di ogni fascino, assume un ruolo anestetico,
una pausa tra un dolore e l’altro. Lei ha imparato a conoscerla assumendo gli anestetici del padre malato e continua a prenderla perché essergli sopravvissuta fa troppo male. I ruoli sociali sono massacranti, divorano energie che non restituiscono. E quando tutto manca, quando i mezzi per trasgredire non ci sono, quando non fai, allora filmi ciò che fanno gli altri, per rubare un riflesso che ti metta in luce. A dispetto del titolo, i ragazzi di Euphoria non sorridono mai, non davvero. Perché tutti vogliono una cosa sola: stare meglio. Scavalcare l’ansia, quello smarrimento tangibile, reale, continuo e trovare, se non una soluzione, almeno un momento di quiete. Placarsi, tacitare una sofferenza di cui sembrano intrisi e a cui cercano disperatamente di abituarsi. È una lunga nota dolente quella che viene suonata dai ragazzi della cosiddetta “Generazione Z”, una nota quasi mai espressa a parole.
Gran parte dei dialoghi avviene attraverso lo scambio di messaggi, zeppi di abbreviazioni, per risparmiare del tempo che andrà comunque parossisticamente riempito. Al termine di ogni giornata i protagonisti sono stremati e anche solo osservarli è spossante. Fa paura assistere a questa incessante ricerca di un po’ di tregua, soprattutto quando al di qua dello schermo si ha una figlia che da un po’ di tempo se ne sta sempre chiusa in camera sua. Ma tregua da cosa? Qual è questa realtà così orribile da cui i ragazzi cercano di scappare in ogni modo? Quale esempio mostruoso rifuggono come la peste?
Ed è qui che entra in campo la ragione vera per cui qualunque genitore, anche quello seduto sulle granitiche certezze, dovrebbe guardare Euphoria: ogni ragazzo protagonista è la derivazione diretta di un adulto incapace di esserlo. Ci sono gli esempi estremi degli alcolizzati, dei predatori sessuali, dei criminali, ma nella maggioranza dei casi gli adulti, soprattutto i genitori, sono dipinti come deboli, insignificanti o assenti. Nelle poche scene di famiglia si respira una tensione insostenibile, il dialogo soffoca sotto una montagna di cose non dette e di bugie di comodo, di frasi come “ti voglio bene” e “sono orgoglioso di te” elargite solo quando i figli soddisfano le aspettative.
Agli occhi di questi ragazzi l’adulto è un ostacolo da saltare, qualcuno di cui vergognarsi
o, nel migliore dei casi, un muro contro cui sbattere. Il suo ruolo è sostituito da un unico punto di riferimento: lo smartphone. No, nessuna invettiva contro il telefonino brutto e cattivo che ha rovinato i nostri figli, grande veicolo di tutti i mali, nuove fauci del lupo. Perché il lupo c’è sempre stato, solo che prima accostava con l’auto o si nascondeva negli angoli bui, oggi usa sapientemente il cellulare come mezzo per farsi raggiungere. Il lupo è sempre lo stesso: l’adulto.
E in questa terrificante narrazione copre entrambi i ruoli, causa ed effetto. Euphoria racconta questo paradosso: ragazzi lasciati soli in balia di un mondo costruito dagli adulti per gli adulti, una perenne roulette russa con una pistola che noi abbiamo caricato per poi consegnargliela. Soluzioni? In apparenza non ne offre, il suo scopo è descrittivo, non consolatorio. Ci dice: guardate, vedete, capite. Non è l’America, non sono i figli degli altri. Siamo noi, è adesso.