È quasi un compagno di viaggio. Uno di quei volti che, da anni, porta sullo schermo le vicende di noi tutti. Ha intercettato sogni e umori dei boomer (Marrakech Express e Happy Family di Gabriele Salvatores). Ha attraversato i cambiamenti sociali e politici italiani (Il capitale umano di Paolo Virzì, Loro di Paolo Sorrentino). Ha dato corpo a protagonisti delle cronache (Giorgio Ambrosoli in Un eroe borghese di Michele Placido, Raul Gardini di Francesco Miccichè). Di recente ha messo la sua ironia in Monterossi, il giornalista investigatore dei romanzi di Alessandro Robecchi editi da Sellerio che Prime Video ha trasposto in serie tv. Adesso Fabrizio Bentivoglio, 67 anni, torna al cinema nei panni di Luigi Pirandello in Eterno visionario di Michele Placido, presentato alla Festa del Cinema di Roma.

Il film racconta gli anni maturi dello scrittore e quelle infelicità profonde – la follia della moglie, il rapporto difficile coi figli, il sogno d’amore impossibile con la giovane musa – che ne hanno ispirato l’opera portandolo al Nobel per la Letteratura nel 1934. «Una vita che gli studi scolastici non ci restituiscono, eppure i suoi personaggi nascono nell’osservazione quotidiana di se stesso e degli altri». Bentivoglio – nomen omen – ha l’aria pacata, sembra in pace con l’umanità. In scena ha una naturalezza che sembra frutto di empatia istintiva, ma dietro c’è un perfezionismo maniacale. «Se un regista mi dà fiducia, non basta fare bene: bisogna fare benissimo».

Fabrizio Bentivoglio, essere Luigi Pirandello

Come si è calato in tanta sofferenza?

«Un uomo così, che diceva di scrivere per vendicarsi di essere nato, puoi raccontarlo solo scavando nell’intimità. È stato importante leggere l’epistolario, le lettere a Marta Abba, sua musa ispiratrice, e alla figlia Lietta (interpretate rispettivamente da Federica Luna Vincenti e Aurora Giovinazzo, mentre la moglie è Valeria Bruni Tedeschi, ndr). C’è in Pirandello una dimensione infantile, un continuo frignare, perfino nel suo ringraziamento per il Nobel. E la consapevolezza, già a 20 anni, di non essere fatto per la routine matrimoniale, come aveva scritto al padre. Difatti i figli soffrirono crescendo nella sua ombra».

Sullo schermo lei è calvo, con il pizzetto. Sono spariti anche gli occhi azzurri.

«Cerco una piccola metamorfosi per ogni personaggio e ho usato lenti colorate perché lui aveva occhi color carbone. Le trasformazioni sono la parte più gustosa di questo mestiere».

La modernità di Pirandello secondo Fabrizio Bentivoglio

Cosa ci avvicina oggi a Pirandello?

«La lotta tra vero e falso, tra quello che siamo e le maschere che indossiamo, è un tema che ci tocca più che mai. Se alla parola “maschera” sostituiamo “profilo social”, ci rendiamo conto quanto il signore fosse avanti: è il padre della modernità proprio perché mostra quanto i ruoli che recitiamo ci allontanino da noi stessi. Per Pirandello siamo perdenti in questa battaglia. Possiamo smarcarci solo con il sorriso amaro o scivolando nella follia. Che lui rispetta e teme, vedendola nella moglie».

Come uscirne?

«Stare nella natura permette di rimanere più in equilibrio: non isolarsi, ma neppure adeguarsi. La solitudine può essere una risorsa spirituale, invece di questa fretta a una socialità superficiale, la corsa al numero di amici e di “like”. Un po’ come quando entri nei supermercati e c’è così tanta roba che non riesci a scegliere. Non mi stupisce che i giovani, come ha scritto Massimo Recalcati, non abbiano più desideri».

La carriera e i sogni

La sua generazione invece si è nutrita di sogni, compreso quello di smontare le convenzioni sociali.

«Inutile negarlo: sogni e desideri ne abbiamo avuti, ma immaginavamo qualcosa di diverso da quello che siamo diventati. Della mia vita personale però non posso lamentarmi. Ho avuto alcuni incontri fortunati e cruciali: oltre a Michele Placido, Gabriele Salvatores e Silvio Soldini, Sergio Rubini e Carlo Mazzacurati. Registi con i quali sono in sintonia da una vita e mi sento in famiglia ogni volta che lavoriamo insieme. Con Placido abbiamo fatto di tutto: teatro, poesia, cinema».

L’amicizia non è un’arma a doppio taglio sul lavoro?

«No, anzi. Le cose vengono meglio tra persone a tu per tu che si capiscono e si vogliono bene. Aiuta a non sbandare, anche quando si litiga».

Era quello che sognava da ragazzino? «Al liceo c’era di più la musica: più la chitarra e De André che Amleto e Shakespeare. Poi c’era il calcio, ho giocato nelle giovanili dell’Inter».

Fabrizio Bentivoglio: non avevo nessun piano A nella vita

Recitare era il piano B?

«Mah, non avevo neanche piani A. Le scarpe da calcio le ho appese al chiodo da tempo, ora tifo per mio figlio 15enne che gioca molto meglio di me: dice che fare l’attore non gli interessa, c’è troppo da imparare a memoria. Neppure alla maggiore interessa, l’ultimo poi è piccolo… Sicuramente non spingo nessuno di loro a fare una scelta che può essere solo profondamente voluta» (Bentivoglio è sposato dal 2012 con l’attrice Silvia Pippia, dalla quale ha avuto Vera, Federico e Matteo di 17, 15 e 12 anni, ndr).

In una vecchia intervista diceva che il suo lavoro «può anche sostituirsi alla vita ma qualche stoico si ritaglia una vita vera». Quindi lei, sposato con tre figli, è uno stoico?

«Darmi dello stoico mi pare goffo. Ci si prova, non sempre ci si riesce, ad avere la vita vera. Sono cresciuto con la narrazione che voleva gli attori “orfani e sterili”, come diceva la collega Paola Borboni, ma per volontà o per sopravvivenza sono riuscito a non vivere soltanto in scena».