Francesca Fialdini torna dal 7 aprile con la terza stagione di Fame d’amore, in seconda serata su Rai3.
Come è nata l’idea di parlare di disturbi alimentari in prima serata?
«Dalle richieste delle persone. Durante il lockdown i disturbi alimentari soo cresciuti circa del 30%, siamo stati inondati di richieste di informazioni. Ci hanno contattato docenti che avevano alunni affetti da simili disturbi, molti genitori e tantissimi ragazzi, che ci hanno chiesto informazioni o aiuto per rivolgersi alle strutture di cui avevamo parlato in trasmissione. Abbiamo sempre messo al centro i ragazzi, fatto sentire le loro voci senza giudicarli. E la loro risposta ci ha responsabilizzato. Ecco perché abbiamo voluto dare una nuova, forte visibilità a un fenomeno che in Italia conta 3 milioni di casi ma solo 300 posti liberi nelle comunità di cura. Il tema dei disturbi alimentari non è solo smisurato, è estremamente complesso. Cosa fare quando un’adolescente, che magari è arrivata a pesare 30 kg, sta male, viene ricoverata al pronto soccorso e rimandata a casa il giorno dopo? E ci sono anche pesanti problemi etici. Una ragazza maggiorenne che rischia di morire di inedia può decidere in autonomia di farsi dimettere da una struttura? Non ci sono risposte facili».
Cosa ha imparato nel corso delle passate edizioni?
«Che per affrontare i disturbi alimentari serve tanto tempo, perché sono problemi che nascondono tanti nodi insieme. Chi ne soffre non vuole apparire più bello, ma libero di essere accettato per quello che è, indipendentemente dalle aspettative dei genitori o degli amici».
Che cos’è la “fame d’amore”?
«È il bisogno di sentirsi visti nel modo giusto dagli altri, in primo luogo da un genitore che magari ha fatto tutto quello che poteva, ma che non ha corrisposto alle tue necessità affettive. È il timore di essere disapprovati. Che porta gli anoressici a dimagrire fino a rischiare la vita: non vogliono emulare i modelli, ma sparire per non sentirsi giudicati. O, al contrario, spinge gli obesi a mangiare per tenere lontano chi li può ferire. Per placarla, bisogna capire da dove arriva la fame d’amore e lavorare su se stessi senza dare colpe agli altri: la libertà e l’indipendenza si devono trovare dentro di sé. Altrimenti, si finirà per impostare su questa dipendenza affettiva anche le relazioni sentimentali. E quando ci si innamorerà, si riverseranno sul rapporto tutte le proprie insicurezze, improntandolo non sulla parità tra i partner bensì sul modello della relazione iniziale genitori-figli».
«Fin dal liceo mi è sempre piaciuto fare gruppo, creare solidarietà. La competizione femminile basata sull’aspetto fisico secondo me è una sconfitta per tutte»
C’è una storia che l’ha colpita più di altre?
«Sì, e riguarda un ragazzo anoressico. Al maschile i problemi alimentari sono più difficili da riconoscere perché mentre si nota subito se una donna è sottopeso, in un uomo, che magari si ammazza di fatica in palestra, i segnali sono meno evidenti. Mi ha colpita la storia di Alberto, un giovane di Palermo con un padre e un nonno affermati medici. Si è laureato ed essendo brillantissimo ha vinto 3 concorsi per entrare nella specialità medica. Però, li ha rifiutati tutti. Chiaramente, l’idea di fare il medico come i suoi scatena conflitti nella sua psiche. Quando parla del padre lo magnifica, eppure vorrebbe non assomigliarli tanto nei tratti del viso. In Alberto convivono da un lato un’incredibile lucidità, dall’altro una profonda confusione o ambivalenza verso la sua famiglia e il suo ruolo di “erede designato”. E questo provoca in lui un conflitto difficile da spegnere».
Come si sazia la fame d’amore che abbiamo tutti?
«Lasciando la nostra comfort zone e rompendo gli schemi in cui, spesso, ci siamo imprigionati da soli. Chi lo dice che il nostro posto nel mondo è quello cui siamo abituati? Chi lo dice che se fai di testa tua, anziché adeguarti agli altri, non sarai felice? Se usciamo dalle gabbie che limitano la nostra libertà e se interrompiamo i rapporti malati o le dipendenze affettive, la vita ci potrebbe sorprendere con un’intensità cui non osavamo aspirare».
Dopo le esperienze legate al programma, il rapporto con il suo corpo è cambiato?
«In realtà no. Ho 41 anni e le lotte con il mio corpo risalgono all’adolescenza. In quarta ginnasio, sono passata da essere la più piccola della classe al crescere in altezza e all’avere tanto seno, che adesso rimpiango (ride, ndr). Allora mi nascondevo sotto tute extralarge di acetato e vestiti di mio padre. Solo quando a 18 anni mi sono trasferita a Roma per l’università, ho iniziato a giocare con il look. Finalmente in una città in cui tutti si facevano i fatti loro e io non mi sentivo più al centro dell’attenzione, mi sono tagliata i capelli cortissimi e ho osato vestiti colorati e pantaloni inguardabili. Ad accettarmi poi è servito lavorare in tv: tramite la telecamera ti vedi “da fuori” e magari scopri che non sei così male come pensavi. Guardandomi sullo schermo ho cominciato a trovare simpatica quella Francesca, a lavorare sulla gestualità. E ad andarmi bene come sono».
Lei piace alle donne. Come riesce a stabilire l’empatia con le sue spettatrici senza suscitare critiche o invidia?
«Innanzitutto non ho una fisicità che spaventa, non sono bombastica, non vengo vista come una minaccia dalle altre donne. Inoltre, a me la competizione basata sull’aspetto fisico disturba: la vedo come una sconfitta per tutte. A me non interessa avere rapporti basati sul mio aspetto o sulla mia sensualità, ma sulla mia personalità, sulle mie idee. È sempre stato così. Anche al liceo, quando ero più bella di ora, mi vestivo “ per sottrazione”, non volevo essere al centro dell’attenzione. Verso le altre ho sempre cercato di sviluppare la solidarietà, di fare gruppo. E, grazie al mio lavoro, posso provarci, creando un dibattito sulle tante diseguaglianze che tuttora ci affliggono. Un esempio? Il fatto che la pandemia ha creato più disoccupate che disoccupati».
«Se interrompiamo i rapporti malati o le dipendenze affettive, la vita ci potrebbe sorprendere con un’intensità cui non osavamo aspirare»
Il suo modo di presentarsi in pubblico è garbato: niente scolli né minigonne. Che rapporto ha con la moda? Ci gioca, ha qualche passione segreta?
«Di mio, giocherei molto di più con il look ma devo essere riconoscibile e mi devo adattare al contesto Rai. Posso dire che mi riconosco nella donna di Armani, mi piace la moda androgina. Quando voglio sentirmi sexy mi diverte mettere un tailleur maschile senza nulla sotto la giacca. Ma se devo sentirmi sicura di me, non c’è niente come mettere i tacchi».
Un accessorio feticcio?
«I cappelli e le collane. Ne ho comprate a decine durante i miei viaggi in Medio Oriente, il posto in cui mi sento davvero a casa e dove torno appena posso».
Tutti hanno scheletri nell’armadio, mises che un tempo ci sembravano favolose e oggi fanno rabbrividire. Qual è il suo look più azzardato, quello più “a ruota libera”?
«Quello che sfoggio in una foto scattata davanti alla Bocca della Verità, appena arrivata a Roma: coppola di lana multicolore, occhialini con montatura quadrata rosa e brillantini, maglione verde militare a collo alto, jeans larghi con anfibi rossi e una sciarpa arancione e gialla fatta ai ferri da mia madre, lunga oltre 2 metri. Un mix raccapricciante».
Uno dei fattori che le donne faticano ad accettare circa il proprio aspetto è il tempo. Lei come vive la sua età? Da piccola come si immaginava a 41 anni?
«Ah, io fin da ragazza avevo una mia tabella di marcia: a 25 mi immaginavo laureata, a 26 mi sarei comprata l’auto, a 28 mi sarei sposata e a 32 sarei stata madre di due figli. Ho rispettato solo la scadenza della laurea. La macchina, una Panda del ’99, è arrivata a 30 anni. Quanto al resto, il mio amico Matteo, che mi conosce bene, dice che io in realtà ho sempre 16 anni».
Servizio di Paolo Lapicca – foto di Davide Nova
intervista di Elisa Venco – testi moda di Elena Banfi
Ha collaborato Fabio Pravato.
Hair style Stefano Rolandi @ TWA Agency.
Make up Alioscia Mussi using La Mer.
I gioielli sono di Francesca Fialdini.