Ne abbiamo parlato in diretta il 16 marzo alle 7.30 durante il programma Non Stop News di Giornale Radio. Qui trovi il podcast.
Ho sempre avuto cura di educare i miei figli alla gentilezza, all’inclusione e al femminismo, ho analizzato con loro le scie offensive o violente che spesso le parole si lasciano dietro, ho incoraggiato la naturale tendenza a fare squadra. Quando la coordinatrice scolastica del più mite tra i due, allora 11enne, mi convocò «per un fatto grave», mi sentivo al di sopra di ogni sospetto. Qualcuno lo accusava di aver pronunciato in classe epiteti sessisti e razzisti.
Genitori contro professori nel film “Educazione fisica”
Avrei liquidato l’episodio con ironia: a mandare in pezzi la mia sicumera fu il distacco della docente, che probabilmente cercava di scongiurare una crisi di classe. La sua ostentata neutralità mi fece ribollire il sangue: la presi come uno schizzo di fango sull’onore del mio bambino e la fiducia nel sistema scolastico per un poco vacillò. Il mio non è il primo né l’ultimo orgoglio materno che s’infrange contro la comprensibile fermezza dell’istituzione scolastica, ma ancora mi chiedo cosa avrei fatto se si fosse trattato di un fatto inconfutabile, come quelli che con frequenza crescente raggiungono le cronache: insegnanti minacciati e aggrediti, presidi sotto assedio, genitori sul piede di guerra per un brutto voto.
La scuola come campo di battaglia di genitori e professori
Una domanda che Educazione fisica, il film di Stefano Cipani tratto dalla pièce La palestra di Giorgio Scianna e ora in sala, esplora fino alle estreme conseguenze, attraverso la parabola umana dei genitori di tre alunni di una scuola media, accusati dalla preside di aver commesso un “fattaccio”. La storia, animata dall’intensità di Giovanna Mezzogiorno, l’inflessibile preside, e dai genitori Angela Finocchiaro, Sergio Rubini, Claudio Santamaria e Raffaella Rea, mostra come il senso di protezione per un figlio possa indurci a smarrire la bussola morale, mentire, diffamare. Lo raccontano capolavori come Carnage di Roman Polanski, basato su Il dio del massacro di Yasmina Reza, o La cena, il duro romanzo di Herman Koch che ha avuto ben tre adattamenti cinematografici. Qui, ad arginare la deriva etica di padri e madri, c’è la scuola, che diventa presidio e campo di battaglia: la palestra che ospita il confronto tra la preside e i genitori si trasforma in un’aula di tribunale in cui, spiega Claudio Santamaria citando David Lynch, «i personaggi non si trasformano, ma si rivelano».
L’alleanza tra genitori e professori
Se simbolicamente ogni scuola, coi suoi valori e regole non negoziabili, è il fondo di un pozzo che ci rimanda l’immagine di ciò che siamo diventati, fuor di metafora il film allude a un’alleanza che s’è rotta, tradendo il mandato costituzionale che assegna alla famiglia e alla scuola una corresponsabilità nell’educazione e nell’istruzione dei ragazzi. «Si tratta di una triangolazione» precisa Giuseppina Nobile, che insegna Lettere in una scuola media della periferia milanese. «Da una parte c’è il docente, dall’altra la famiglia, al centro gli studenti. Parlare di patto educativo significa sottolineare l’importanza di una collaborazione che convalida e incentiva principi e saperi».
Quel patto tra genitori e professori s’è rotto?
«S’è indebolito» risponde Nobile. «La scuola promuove una società democratica, equa ed inclusiva, ma in molte case si coltiva un’idea diversa di disciplina e collaborazione, e anche i genitori illuminati sono più interessati alla performance che ai valori». Concorda Alberto Pellai, medico, ricercatore e psicoterapeuta dell’età evolutiva: «Negli ultimi decenni è saltata l’idea di una comunità educante adulta che, di fronte agli svarioni inevitabili che i figli crescendo commettono, faccia fronte comune aiutandoli a ragionare e crescere, indicando loro una precisa direzione. Si afferma spesso, quando si guarda ai figli, una sorta di personalizzazione dell’etica e del senso civico».
La sovraesposizione crea aspettative altissime
«A volte i colloqui coi genitori diventano sedute di terapia: per quanto li si prepari all’adolescenza, quando i ragazzi diventano ombrosi, scostanti, condizionabili, si sgretolano. Quando servirebbe fermezza, sono i primi a distrarsi coi selfie allo specchio o le coreografie su TikTok. Siamo una generazione che ha preso sottogamba la genitorialità». Mettendo da parte gli episodi più gravi, tra adulti e ragazzini prevale poi una difficoltà generalizzata ad accettare gli errori, ricorda Pellai: «Viviamo nel mito del successo. Siamo in genere poco propensi ad ammettere l’esperienza della sconfitta, ma nell’età evolutiva gli errori fanno parte del percorso, se un genitore cade a pezzi quando si verificano, diventano un carico pesantissimo».
Più valutazioni che voti a scuola
Un approccio che, ricorda Nobile, dovrebbe prevalere anche a scuola «dove è preferibile parlare di valutazioni, più che di voti, che sono l’esito di un percorso che ha per sua natura alti e bassi». Se scuola e famiglia hanno ruoli e responsabilità distinti, conclude Pellai, «un mondo adulto che non fa squadra, diviso tra punti di vista oscillanti, senza rispetto per ruoli e competenze, rischia di disorientare un’intera generazione. Basta il giudizio negativo su un insegnante ad aprire una crepa».
I genitori devono mettersi in ascolto
Finché la crepa è aperta, la buona notizia è però che, in un’età in cui la personalità comincia a definirsi, i ragazzi alla fine comprendono che certi adulti meritano più fiducia di altri. «È il momento in cui sviluppano un pensiero critico» commenta la professoressa Nobile. «L’adulto che prova con coerenza a mettersi in ascolto ha buone chance di diventare un punto di riferimento solido». Anche sulla possibilità di ridisegnare il patto, la prof è moderatamente ottimista: «Viviamo la coda di un cambiamento epocale. Rispetto a una decina di anni fa, si sta per esempio alzando l’età del primo cellulare: quest’anno in prima media più della metà della classe non ce l’ha. Nel tempo, insomma, alcuni appelli vengono accolti, molti genitori ascoltano e cambiano rotta. La pazienza non ci manca».