Questa non è la solita intervista. Parlare con Gianluca Grignani significa seguire il flusso dei pensieri che si fanno parole. E scandagliano la vita di un artista di 50 anni che in 28 di carriera ha toccato il cielo, è caduto nel baratro e si è rialzato di nuovo.
Quale ragazza degli anni ’90 non aveva un debole per lui che cantava Destinazione Paradiso? Quel Festival di Sanremo, era il 1995, ha dato il là a 10 album, 3 raccolte, 5 milioni di dischi venduti, premi dei critici che lo hanno definito uno dei pilastri del rock italiano. Poi, ad allungare ombre sulla luce del successo, i suoi tormenti personali, tra i problemi di dipendenza e la separazione dalla madre dei suoi quattro figli. Ed è tutto questo, insieme, che lo ha reso la persona che è oggi: non il rocker maledetto che è stato a lungo considerato, ma un uomo dalle tante anime che a volte fatica a «tenere a bada».
La canzone di Grignani a Sanremo
È proprio una di queste anime che il cantautore milanese rivela nella canzone con cui è tornato in gara al 73° Festival di Sanremo: Quando ti manca il fiato (Falco a metà/Sony Music). Un brano autobiografico che ricuce il dialogo con suo padre dopo anni di silenzi, e parla a tutti raccontando di quel momento in cui ti accorgi di cosa sia davvero la vita. E che la gente ha capito.
«Vorrei che gli altri mi vedessero come una persona comune»
«Il Festival di Sanremo è stato più pesante di quanto ricordassi. Mi divertivo, non ho mai guardato la classifica. Penso di essere l’unico arista nella storia del festival a non aver mai visto la classifica. Sono andato a Sanremo sapendo di avere un grande brano. Non mi aspettavo che alla gente arrivasse subito ma sapevo che sarebbe rimasto. La gente si è sentita coinvolta, questo tipo di brani non sono solo di chi li fa. Molte persone si sono riconosciute, poi la canzone ti rilassa, non dà una morale ma una reazione», ha raccontato in questi giorni Gianluca Grignani a RTL 102.5. «È stata la mia settima volta al Festival di Sanremo, mi sono accorto di quanto la gente mi voglia bene. Me ne ero già accorto lo scorso anno, quando mi sono esibito con Irama e ancora di più quando mi sono assentato dalle scene. Mi sento parte della famiglia di tutti. Sono come uno zio un po’ fuori dagli schemi. Le persone che apprezzano la mia musica sembrano capirmi meglio degli amici con cui esco a cena. Desidererei che le persone mi vedessero come una persona comune e mi accettassero così come sono».
Intervista a Gianluca Grignani
Quando ha sentito il bisogno di scrivere la nuova canzone?
«È nata di getto 7 anni fa, dopo una sua telefonata. La domanda che canto – “Ma tu verrai al mio funerale?” – me l’ha fatta davvero. Ero ancora sposato, vivevo con tutta la mia famiglia a Ponte di Legno. Ricordo che guardavo le montagne fuori dalla finestra. Non gli dissi niente. La canzone è la mia risposta non data a quella domanda».
Ora dove vive?
«In Brianza, solo con mia figlia più grande che ha appena compiuto 18 anni (gli altri, avuti dal matrimonio con Francesca Dall’Olio non li vede, ndr). Casa è diventata anche il mio studio».
Canta di un padre assente, e lo perdona.
«Perdonare, se stessi o gli altri, non conta. Conta l’atteggiamento. È come nello sport: se stai perdendo e reagisci, puoi ancora vincere. Adesso mi sento in grado di farlo. Ho curato la ferita. Certo, è rimasta la cicatrice, ma a poco a poco sento che va via. Forse dipende anche dall’età o dall’essere padre io stesso».
Con il suo non ha parlato per 20 anni: vuole raccontarne il motivo?
«No, invaderei la sua privacy. Posso dire che i miei genitori si sono separati quando avevo 18 anni e non ci vediamo da tempi immemori».
È scomparso il rancore?
«Non c’era rancore. Non puoi provare rancore per una persona a cui riesci a dire “Ti amo”. Il distacco c’è stato perché tenerlo lontano mi aiutava a non soffrire. Una difesa».
Lei che padre è?
«Cerco di non ripetere gli errori del mio: costa molto, ma non so quanto sia costato a lui comprendere i suoi. Quindi, meglio non farli».
La musica è la sua terapia?
«Andare da uno psicologo mi costerebbe un casino, preferisco scrivere. Sono un buon ascoltatore, riesco ad ascoltare anche me stesso, anche se non quanto vorrei. Intanto, mi sono dovuto tatuare sul braccio la frase “Ricordati di volerti bene”. Mi manca ancora questo pezzo».
Si vuole un po’ più bene rispetto al passato?
«Sì. Voglio più bene in generale a quel Gianluca Grignani che chiamano Joker (soprannome nato dal titolo di una sua canzone del 1998, ndr). Quella parte di me che fa fatica a stare in equilibrio».
Si è sentito solo?
«C’è stato un momento in cui mi sono sentito davvero solo. Pensavo di andare a fuoco, di essere cremato vivo dentro a una bara di acciaio, è stata la cosa peggiore che mi è capitata. Non voglio ricordare quel periodo, era solitudine reale. Molte persone dipendevano da me, ma non c’era nessuno su cui poter contare. Poi però ne sono uscito. La solitudine, da allora, non mi fa più paura.
Cosa le fa paura?
«Ho paura di morire».
Oggi ha qualcuno a cui appoggiarsi?
«No, e non lo voglio. Ogni volta che mi sono appoggiato a qualcuno ero troppo forte io, non mi piace come sensazione. Era il problema più ingombrante nella stanza dei miei casini».
In quella stanza quanto buio c’è stato?
«Ho sempre vissuto nell’angolo più buio della stanza, ma la porta è rimasta aperta verso la luce».
Che cosa l’ha aiutata nei momenti peggiori?
«Non riesco a essere del tutto negativo, se non a tratti. Ancora oggi vivo nell’ombra e lascio la porta aperta. Non potrei mai vivere nella luce, sarebbe noiosissimo».
Al passato ci pensa?
«Non amo guardare all’indietro e non guardo avanti. Non so provare rancore. Al massimo posso sentirmi in pericolo e quindi allontanarmi. Se c’è qualcosa che mi ha fatto male nella vita, è l’invidia: perché non l’ho riconosciuta».
Se non avesse scelto la musica?
«Volevo diventare un cowboy. Mi affascinava il suo essere solitario. Non sapevo che essere così mi avrebbe fatto pagare un dazio alla vita. Ma va bene così. L’ho accettato».
Gianluca Grignani è stato un grande sex symbol.
«Perché, non lo sono più? Negli anni ’90 non mi ci sentivo, anche se ero giovane e avvenente… Ma lo sono di più adesso. Credo sia interessante vedere sul viso di una persona il tempo che passa, ma soprattutto il mio carattere è molto più a fuoco. Se fossi una donna, con me ci passerei molto tempo».
È sempre così ironico?
«L’ironia mi salva dal mio egocentrismo. Se non la uso, prende piede il mio ego. Non voglio, mi dà fastidio. È un essere a parte, come il Joker quando viene a disturbarmi. Lo tengo a bada».